Il regista svedese, ma danese di adozione, Gustav Möller, parla del suo «Vogter», opera seconda che, attraverso un genere cinematografico, pone interrogativi cruciali sulla pena carceraria

VOGTER photo by Nikolaj Moeller

Alto, allampanato, ben protetto per l’inverno milanese (del resto da buon nordico che scopre Milano racconta che per lui questo dicembre è una sorta di primavera)  Gustav Möller è sbarcato al Festival con la sua opera seconda, Vogter (Sons), che uscirà nelle sale italiane grazie a Movies Inspired.

«Il mio cinema parla sempre di persone, vuole essere una commedia umana che entra nelle storie personali con lo scopo di illuminare i lati oscuri dei personaggi di fronte a eventi che cambiano il loro modo di essere. Le atmosfere del noir mi piacciono da sempre e così i vari generi che lo costruiscono. Per questo, alla fine, ogni volta mi ritrovo a usare questo registro narrativo da Den skyldig (Il colpevole – The Guilty – ndr) a Vogter e in fondo anche nella serie Mörkt hjärta (The Dark Heart – ndr) che ho girato in Svezia ambientandola in un posto di polizia».

Vogter inizia come un classico prison movie, ma ruota intorno al conflitto interiore di una donna che da guardia carceraria deve decidere come comportarsi con un detenuto che, a sua insaputa, ha dolorosamente a che fare col suo passato.

In Danimarca, come in Italia, il tema dell’istituto penitenziario come luogo punitivo o di redenzione resta aperto a due diverse concezioni della pena. Girando in un vero carcere, che idea si è fatto?
Nonostante alcuni cliché necessari come riferimento visivo al genere, posso assicurare che siamo stati molto fedeli alla vita reale in una prigione e, del resto, ci siamo fatti guidare da un secondino tutto il tempo. Ma quello che lei nota corrisponde al senso del mio film: siamo  esseri razionali, viviamo in una società che crede nella pena come strumento di redenzione, ma siamo anche animali che si fanno guidare dalle emozioni, spesso contrarie al nostro modo di vedere le cose. Non ho risposte pronte, metto in scena esattamente questo conflitto drammatizzandolo sulla pelle di una donna fragile e dura nello stesso momento.

Lei è svedese ma si è formato alla scuola di cinema di Copenhagen, dopo la generazione di Suzanne Bier e Lars von Trier. Oggi a quale cultura si sente più vicino?
Tutto sommato mi sento vicino al cinema della mia patria adottiva. È più vitale, pone più attenzione alle persone e ai caratteri. E poi, ormai, vivo da tanto in Danimarca e, in fondo, sono due culture abbastanza simili.

Ma dovendo scegliere e pensando ai suoi riferimenti, meglio Lars von Trier o Ruben Östlund?
Preferisco rispondere così: viva Vinterberg!