Nel giorno della consegna del Raymond Chandler Award, pubblichiamo un articolo di Nicoletta Vallorani uscito sul catalogo del Festival

photo by Natalie Greppi

Silas Aloysius Weir, dottore in medicina, è ritenuto dai suoi colleghi medici il «Padre della Gino-Psichiatria». Questo dichiara suo figlio, nella Nota del curatore che apre, con una cornice finzionale consueta nel romanzo ottocentesco, la storia degli esperimenti messi in pratica per più di trent’anni nell’Istituto del New Jersey per donne malate di mente. Per quel che si dice, essi erano finalizzati a sviluppare una precisa branca della psichiatria – quella delle patologie femminili – attraverso brutalissimi interventi chirurgici, farmacologici e di altro tipo su corpi di donne internate per lo più troppo «inquiete» o depresse in seguito a parti difficili. La parola «padre», invocata dal figlio biologico e applicata in senso metaforico alla scienza praticata dal protagonista, ricorre in modo ossessivo, soprattutto in questo prologo e nelle successive note del curatore, inserite a intermittenza nel romanzo. Infine, la storia che ci viene raccontata attraverso una polifonia di voci in Macellaio, tradotto da Chiara Spaziani e appena pubblicato da La nave di Teseo, è ispirata a un personaggio e a vicende reali, il che aggiunge orrore all’orrore.

E si fa un po’ fatica ad abbinare questo orrore all’aspetto di chi l’ha scritta.

Ma bisogna che non ci si lasci ingannare: la signora sottile e dall’aria distinta, non più giovane ma ben in grado di ingannare il tempo, non è quel che sembra. Capace di parlare di letteratura con metafore che arrivano dalla boxe e di affermare ancora ora che le idee migliori le vengono mentre corre, Joyce Carol Oates ha campionato, nel corso di una vita non breve, qualcosa come una settantina di romanzi, un migliaio di racconti, più o meno cinquanta opere teatrali e un numero imprecisato di raccolte, interventi, contributi teorici e chi più ne ha più ne metta. È comprensibile che per qualunque critico il suo profilo risulti difficile da afferrare, e altrettanto comprensibile è che ogni sua opera sia seguita da un nugolo di lettrici e lettori entusiasti, sempre sorpresi di un tratto che ricorre: la capacità di raccontare il nodo oscuro, spesso sanguinario e inconfessabile, che lega i membri di una comunità.

Nella definizione di questo talento, coniugato con una voce letteraria cristallina e inconfondibile, non sembra aver ruolo una biografia tutto sommato lineare. Nata nel 1938 a Lockport, una città piccola a ovest di New York, Oates studia letteratura inglese alla Syracuse University e poi alla University of Wisconsin, e poi insegna per un po’ a Detroit, dove vive tra il 1961 e il 1967. Nel frattempo si sposa con Raymond J. Smith, che resterà il suo compagno fedele fino al 2008. La morte che se lo porta via è commemorata con profondo dolore, e seguita nel 2009 da un nuovo amore – a 71 anni, a proposito di imbrogliare il tempo, e davvero chapeau – con Charles Gross, neuro-scienziato e collega di Princeton (che poi se ne va nel 2013, lasciandola vedova per la seconda volta).

La storia letteraria è fittissima di eventi. A partire dal primo romanzo, pubblicato nel 1964, Oates procede con un ritmo mai interrotto di due o tre opere all’anno, tutte di livello altissimo e tutte, in modi diversi, collegate alla storia – ufficiale e privata – di una America che continua a cambiare. Per me, la voce di questa scrittrice, in apparenza sempre del tutto padrona di se stessa, si accende luminosa in them, rititolato in italiano Loro. Epopea americana. Pubblicato nel 1969, il romanzo fornisce un quadro di sfavillante disperazione della Detroit carica di contraddizioni di quegli anni. Nell’estate del ’67 in particolare, la città fu teatro di quattro giorni di scontri tristemente noti, originati dall’intervento della polizia a una festa di afroamericani che stavano festeggiando il ritorno di alcuni di loro dal Vietnam. La contraddizione tra un servizio prestato allo stato e comportamenti fortemente discriminatori è la regola non scritta che governa anche la vita della protagonista del romanzo di Oates, intrappolata tra una favola che non si realizza e la sorte già scritta di chi non ha mai avuto speranza. All’inizio della storia, Loretta Wendall, la cui vita sarà segnata da relazioni sbagliate e desideri inadempiuti, si guarda allo specchio e decide che è innamorata: non di qualcun altro, ma di se stessa. In questo specchio che negli anni si frantumerà in una serie di speranze inadempiute, compare anche la traccia della lettura che Oates cita spesso come quella che ha cambiato la sua vita: la storia del viaggio di Alice nel paese delle meraviglie e, appunto, attraverso lo specchio. È spesso un’avventura di donne quella che Oates ci racconta, ed è un’avventura pericolosa e poco governabile, sempre, per le protagoniste delle sue storie. Quello che ne moltiplica l’impatto è la radice molto «reale» che tutte hanno. Loro è esplicitamente legato a una testimonianza di vita che Oates ascolta da una sua allieva e poi trasforma in vicenda finzionale, facendone un capolavoro letterario.

Poi ci sono gli spunti pescati dalla cronaca, come il resoconto dell’omicidio della Dalia Nera (a Los Angeles, nel 1947), incluso Black Dahlia and White Rose (2012) e peraltro raccontato con voce molto diversa da un altro noirista molto famoso (James Ellroy in Black Dahlia, 1987).  Oates è invece l’unica a raccontare, in una straordinaria e poeticamente crudelissima versione narrativa, la vicenda di una reginetta di bellezza trovata morta nella cantina di casa sua, a soli sei anni. In Sorella, mio unico amore (2008), il crimine mai risolto viene ripreso e raccontato in flashback da Skyler, l’ormai ventiduenne, e vagamente deragliato, fratello di Bliss (la vittima), straziato dall’amore inconfessabile per la sorella e schiacciato dalle convenzioni formali della tipica famiglia americana, tipicamente finta e corrotta e altrettanto tipicamente aggrappata alla propria confortevole vita nei sobborghi alto borghesi che abita.

Come succede nei romanzi di Tiffany McDaniels, un’altra scrittrice straordinaria e parecchio più giovane, Oates non aderisce al genere noir per scelta. Ci cade dentro nello sforzo riuscito di rappresentare i pezzi di vita americana, mantenendo alcune convinzioni profonde. La prima è che esistiamo in un sistema di relazioni, e per la maggior parte esse si dipanano in contesti familiari o prossimi alla famiglia. La seconda, conseguente alla prima, è che questi contesti familiari sono fatti di strati: la superficie non restituisce la sostanza, e la sostanza è spesso piuttosto pericolosa da avvicinare. I temi che ricorrono sono spesso coperti da tabù profondi. Incesto, violenza domestica, relazioni disfunzionali tra partner con significative differenze d’età e di posizione sociale, pedofilia sono tematiche che Oates affronta spesso, con la penna chirurgica e la voce cristallina che le va riconosciuta. In un racconto pubblicato nel 2008 sulla rivista «Shenandoah» e intitolato Bleed, Jess è un ragazzo di buona famiglia, diplomato col massimo dei voti e orgoglioso di soddisfare le aspettative dei suoi genitori. Di certo, un ragazzo così non può aver partecipato a una violenza di gruppo. Di certo, non può aver stuprato una minorenne. Tanto più che la minorenne in questione è pure straniera, figlia di madre sola, clandestina … insomma sacrificabile, no? E di certo non è possibile che un ragazzo così, anni dopo e tornando dall’università per la Festa del ringraziamento, si imbatta in una ragazzina e le faccia violenza immaginando invece di cercare di aiutarla. Non è possibile. Perché i bravi ragazzi non fanno queste cose.

Ciò che colpisce, in questa come in altre storie analoghe, è la mancanza di consapevolezza, degli assassini (volontari e involontari), come molto spesso delle vittime. Nel racconto che Oates dedica al cosiddetto incidente di Chappaquiddick, forse una delle sue storie più conosciute per la vicenda cui si ispira, la giovane protagonista abbandonata a morire da sola continua fino alla fine a sperare che il suo principe venga salvarla. Invece l’allora senatore Edward Kennedy, al secolo ubriaco corteggiatore di Mary Jo Kopechne, non ci pensa nemmeno a occuparsi di lei. In Acqua nera (1992), addirittura, il protagonista si appoggia con i piedi al corpo della sua compagna di viaggio per spingersi fuori dalla macchina e sopravvivere. E una volta fuori, dimentica del tutto chi era con lui. Sott’acqua, nella sacca di aria nella quale soffocherà, Kelly non trova nessuna critica da muovere all’uomo che l’ha abbandonata. Piuttosto, accetta il suo destino, come farebbe ogni eroina delle favole.

E una favola tutta inventata è anche quella che Oates, inseguendo un altro Kennedy, racconta nel suo romanzo forse più famoso, Blonde (1999): una favola che, a guardarla bene, favola non è, ma il suo rovescio. Il volume di oltre settecento pagine, paragonabile come mole a quello appena pubblicato, risulta dalla volontà di «essere» Norma Jeane Baker, la ragazzina di provincia pronta a adattare il suo aspetto per divenire una star. Il fatto è che i cambiamenti profondi sono più permanenti di una tintura per capelli e di un intervento al naso. E nel progressivo concatenarsi di successi e depressioni, grandi amori e abbandoni, esibizioni sfavillanti seguite da crolli, torna sempre più invadente l’ombra della donna che Norma Jeane non ha potuto essere, a partire dal preciso momento in cui è «diventata» Marilyn Monroe. E il preciso momento, in realtà, è una sequenza di violazioni, effettive o simboliche, per lo più a opera dei vari uomini che hanno popolato la sua vita, amori fulminanti o semplici ma pericolosissime comparse. Siccome è fiction – e a questa definizione Oates tiene molto – nessuno dei personaggi maschili che interagiscono con Marilyn è dotato di un nome proprio, ma rappresenta una semplice funzione. Il produttore che violenta Marilyn all’inizio della carriera viene definito come Mr. Z, mentre Joe di Maggio è l’Ex-Atleta e Arthur Miller il Drammaturgo. Infine, J. F. Kennedy, naturalmente, il Presidente. E Marilyn è l’Attrice Bionda che «si sentì tremare perché il Presidente stava parlando di … missili nucleari? Missili sovietici? A Cuba? Avrebbe voluto tapparsi le orecchie (…) Il Presidente la prese per i capelli. La attirò a sé e la baciò mentre con la mandibola teneva ferma la cornetta contro l’incavo della spalla». Questa citazione mi è utile a mostrare come vi sia una valenza politica esplicita nella storia, e come essa si colleghi, nell’uomo di potere, a un abuso patriarcale, pubblico e privato. Val la pena ricordare che sulla morte di Norma Jeane vi è ancora l’ombra del dubbio che non sia stata deliberata né accidentale: somiglia alla vicenda di Lady Diana, che per Oates si colloca all’origine della decisione di scrivere Blonde. Entrambe queste figure femminili potrebbero essere state vittime sacrificali alle ragioni di governo.

Comunque sia, in questa narrazione postuma, alla fine, Norma Jeane muore, ma Marilyn Monroe vivrà per sempre. E guadagna il diritto a parlare, come Brigit Kinealy, la paziente sordomuta e la puerpera albina che poi diventa assistente del dottor Weir in Macellaio. Narrativamente, ella acquista il prodigio di una voce e insieme a essa il diritto di raccontare anche lei la sua versione della storia. Ed è a lei che il romanzo è dedicato:

Per tutte le Brigit – quelle senza nome e quelle che un nome lo hanno, quelle ridotte al silenzio e quelle la cui voce è stata ascoltata, quelle che sono state dimenticate e quelle cui la storia ha reso onore.

Perché forse alla fine e nei fatti il patriarcato non ha ancora smesso di esistere.

(Nicoletta Vallorani)
(Le foto di Joyce Carrol Oates sono scattate da Natalie Greppi)