Ospiti per la prima volta a Casa Manzoni, i finalisti del Premio Scerbanenco hanno parlato dei loro libri. Un dialogo nel quale in trasparenza si è potuto osservare il nostro paese.
Articolo di Ariel Conta
Casa Manzoni è stata per la prima volta teatro dell’assegnazione del Premio Giorgio Scerbanenco, giunto alla ventinovesima edizione. Come di consueto, prima di rivelare il vincitore, Enrico Pandiani con Fuoco, i cinque finalisti (oltre al trionfatore, Francesco Abate, Gian Andrea Cerone, Andrea Fazioli e Davide Longo) hanno dato vita a un incontro moderato da alcuni dei giurati: Valerio Calzolaio, Luca Crovi, Cecilia Lavopa, Sebastiano Triulzi e John Vignola. E un punto cruciale è emerso dalle parole degli scrittori: due dei nodi fondamentali che compongono la rete del noir italiano sono la rappresentazione della violenza e la difficoltà di convivere col dolore, sia fisico che emotivo.
«Ci affezioniamo a queste persone, ci affezioniamo soprattutto alle loro falle», ha affermato Davide Longo, in merito al carrozzone di freak che popola la sua opera, La vita paga il sabato (Einaudi). «Ciò che distingue gli individui è la creatività, i materiali, l’inventiva con cui riescono a tappare questi fori che altrimenti li manderebbero a fondo».
Come se avesse preso il testimone, Gian Andrea Cerone ha sottolineato come noi «non siamo più abituati alla percezione del dolore». Ed è proprio col dolore che i personaggi del suo romanzo d’esordio, Le notti senza sonno (Guanda), dovranno fare i conti, in una Milano che lo scrittore definisce acquatica, che «ruba vite ma ne restituisce altre».
Un percorso che ci porta, di opera in opera, verso quella che John Steinbeck ha definito essere l’unica storia su cui si regge il mondo, ovvero l’infinita lotta tra Bene e Male. Ed è a partire da questo conflitto interiore che si apre il romanzo di Andrea Fazioli: «L’idea che la paratia tra bene e male sia sottile non è nuova. Ma a volte è sorprendente quanto sia sottile e quanto lo stesso male ci contagi tutti». Una sottigliezza che manda in crisi il protagonista de Le strade oscure (Guanda), il quale teme di poter commettere atti da mostro.
Strade oscure che forse potranno essere illuminate dal Fuoco (Rizzoli) di Enrico Pandiani, vincitore, come anticipato, del Premio Scerbanenco. Un romanzo dalla forte dimensione sociale innestato in una Torino della barriera: «Questo indagare sulle miserie umane, sulle difficoltà […] porterà [i personaggi, ex detenuti in fuga, NdR] a confrontarsi con quello che scoprono e a una sorta di desiderio di redenzione. Si ritroveranno quasi costretti a restituire qualcosa alla società in cambio di ciò che hanno commesso», ha svelato Enrico Pandiani.
Dalla necessità di redenzione torniamo infine alla difficoltà di rappresentare e concepire la violenza, attraverso le parole di Francesco Abate. «Ho deciso di tornare alla narrazione di genere dopo aver preso le distanze da tutto quel dolore, da tutto quel sangue, da ciò che ho vissuto in prima persona», ha raccontato l’autore de Il complotto dei calafati (Einaudi), riferendosi anche al suo personale passaggio dal giornalismo alla letteratura noir.
Oltre al dolore e alla violenza, alla fine è emersa una terza parola chiave, la fragilità, evocata esplicitamente da François Morlupi, autore di Nel nero degli abissi (Salani) e vincitore del Premio dei Lettori per il secondo anno di seguito. «Lui – parlando del suo protagonista – è quello che è. È un essere umano e, pertanto, fragile».
Ed è proprio sull’importanza della narrativa noir come strumento di interpretazione della realtà – fallace, fragile, vicina al bene tanto quanto al male –, che si innesta il discorso di Maurizio de Giovanni, vincitore nel 2012 del Premio Scerbanenco con Il metodo del coccodrillo (Einaudi). «La realtà continua a superarci, noi tentiamo di avvicinarla e lei ci ri-supera […] e questa è la magia del genere». Quasi a rimarcare l’importanza del Premio Scerbanenco in grado di leggere le storie del nostro paese, uno stetoscopio capace di percepire i battiti della nostra realtà.