I primi amori letterari, le passioni più tardive, il superamento delle classificazioni e dei generi. L’autore di Delitto d’inverno dialoga a distanza con Adrian Wooton.
«Ho letto alcune tue interviste dove hai detto che hai iniziato a scrivere quando eri un ragazzo molto giovane. E tra le tue influenze letterarie hai citato Gente di Dublino di James Joyce. Mi chiedevo però, oltre Joyce, Samuel Beckett e Henry James, altri grandi scrittori di cui hai parlato, quando hai scoperto la narrativa poliziesca? Cosa ti è piaciuto e ti ha ispirato?». Con questa domanda Adrian Wootton ha dato inizio al dialogo con John Banville, invitato al Festival per ricevere il Raymond Chandler Award 2020. Un’occasione anche per presentare il romanzo Delitto d’inverno, edito in Italia, come tutti i suoi libri, da Guanda.
«Non lo dico solo per il premio che ho appena ricevuto – ha risposto John Banville –, ma uno dei primi autori noir che ho letto è stato Raymond Chandler. Mio fratello maggiore quando avevo quattordici o quindici anni mi regalò Il lungo addio. E scoprii con gioia che la narrativa poliziesca poteva essere alta letteratura. La prosa di Chandler è meravigliosa. E mi piaceva che a Chandler importasse assai poco della trama. Come ebbe a dire lui stesso: “Non mi interessa chi ha ucciso il professore in biblioteca. L’unica cosa che conta è lo stile.” Sono molto d’accordo. E ho letto anche le scrittrici inglesi, quelle tra gli anni Trenta e Cinquanta, Agatha Christie, Margery Allingham e altre ancora. Signore con l’abito a fiori con l’omicidio nel cuore. E io le ammiro immensamente. Mi sembra che venga poco sottolineato, quanto successo avessero le scrittrici crime di quei tempi. Cosa che non succedeva nella narrativa tradizionale. Poi ho scoperto autori come James M. Cain. Il postino suona sempre due volte è un libro costruito benissimo, condotto sapientemente. E un altro, che si chiama Serenata, inizia con questo cantante d’opera disonesto che si rifugia in Messico. Lui e la ragazza all’inizio sono su una moto e piove a dirotto. Allora arrivano in una chiesa, parcheggiano e rimangono lì per un po’. Mi ha entusiasmato, penso che sarebbe stato un film superbo».
Perché dopo una serie di ottimi romanzi – ha chiesto Wootton –, Banville ha sentito il bisogno di virare verso i colori del noir? Cosa lo ha spinto a operare quel cambiamento? «È molto semplice. Georges Simenon è il padre di Benjamin Black, del giallista che sono diventato. Non avevo letto Simenon, mi sembrava poco interessante. A un certo punto, un mio amico filosofo inglese, John Gray, mi disse che avrei dovuto leggerlo. Allora iniziai e mi lasciai trasportare. Ora lo considero uno dei più grandi scrittori del XX secolo. Nessuno sa creare una scena come Simenon. Insomma, ho pensato: se lui riesce a realizzare dei libri eccezionali, con un vocabolario ridotto all’osso, con una trama e dei personaggi solidi, allora ci avrei potuto provare anche io. L’ho fatto, ma non sarei mai potuto essere Simenon perché ho scoperto recentemente, pur leggendolo da tanto tempo, che il suo segreto è il non avere un ego. Lui non è presente nei suoi romanzi. È solo un occhio che registra. Io non potrei riuscirvi, sono troppo egocentrico. Sono uno scrittore, sono affascinato da come funziona il mio cervello. Simenon, no».