Come far riapparire un personaggio immortale nelle pagine di un libro? John Banville racconta la genesi de La bionda dagli occhi neri, firmato con lo pseudonimo di Benjamin Black.
Traduzione di Sabrina Pellegrini.
La prima volta che Ed Victor, il mio ex agente, in accordo con il Chandler Estate, mi ha suggerito di scrivere un romanzo di Philip Marlowe, ho valutato molto attentamente questa proposta. Marlowe è uno di quei personaggi immortali, al livello di Don Chisciotte, Emma Bovary e Leopold Bloom, e qualsiasi tentativo di resuscitarlo sarebbe passato al vaglio meticoloso dei suoi numerosissimi ammiratori, una corte legittimamente protettiva nonché spaventosamente ferrata in materia. Poi, bisognava decidere se rinnovare il personaggio di Marlowe per il pubblico contemporaneo, o restare ancorati al modello originale.
All’inizio ho pensato di ricalcare il vecchio modello. Fondamentalmente, i libri di Marlowe sono molto più decorosi rispetto ai volgari gialli contemporanei. Come avrei potuto, in un’epoca così sboccata, far dire a Marlowe a uno smaliziato poliziotto di Los Angeles: “Vai a farti friggere”, e tutti gli altri eufemismi a cui Chandler doveva attenersi, date le convenzioni che vigevano ai suoi tempi? E che dire del suo atteggiamento che, seppur in forma lieve, era inequivocabilmente “politicamente scorretto” nei confronti delle donne, dei neri, e soprattutto degli omosessuali? Sicuramente sarebbe stato necessario adeguarlo alla nostra contemporaneità.
Marlowe è l’emblema dell’eroe hard-boiled della letteratura poliziesca, nonostante una delle sue caratteristiche più interessanti e senza dubbio più accattivanti, sia la vulnerabilità. Nel corso delle sue indagini, è in grado di sopportare un pestaggio, ma resta irrimediabilmente segnato dalle ferite inferte alla sua anima. La commedia umana non è divertente, a suo parere, solo vagamente assurda e spesso crudele. Nonostante sia in qualche modo anche un intellettuale – ricordiamoci che ha trascorso un paio d’anni all’università – ha un animo semplice. La sua battaglia personale, così come la definisce Raymond Chandler, è “quella che tutti gli uomini fondamentalmente onesti affrontano per poter andare avanti in una società corrotta”.
Marlowe è anche l’emblema della solitudine. Vive in affitto in un alloggio anonimo, sembra non possedere altro al di fuori di una caffettiera, una scacchiera e un’automobile non ben definita. Non ha famiglia, né amici, a quanto pare, e le donne di cui si innamora sono sempre letali, a volte nel vero senso della parola. E quando una di loro, Linda Loring, la figlia milionaria di Harlan Potter, si rivela invece una brava persona, e per giunta pazza di lui, il poveretto la sposa subito. Se scriverò mai un altro romanzo su Marlowe, racconterò di un uomo serenamente divorziato, più triste ma probabilmente non molto più saggio.
Nel nostro immaginario collettivo, Marlowe assomiglia a Humphrey Bogart; Humphrey Bogart, però, non assomigliava affatto al Marlowe di Chandler. È impressionante il marchio impresso da Bogey su questo personaggio, considerando che lo interpretò una volta sola, ne Il grande sonno. Avendo Chandler descritto Marlowe come un uomo ‘più alto di 1 metro e 80, con un peso di circa 86 chili’, l’attore ideale a interpretarlo sarebbe stato Cary Grant. Nelle prime pagine de Il grande sonno, Carmen Sternwood esclama rivolta a Marlowe, “Sei alto, eh?”, osservazione a cui lui replica “Non l’ho fatto mica apposta”. Nel film, la statura minuta di Bogart viene spiritosamente liquidata – nonostante il copione sia stato in parte scritto da William Faulkner, che spiritoso non era affatto – da Carmen che osserva che Marlowe non è molto alto e da Bogart che brillantemente risponde: “Però ci provo”.
Nel rileggere quei romanzi, mi sono reso conto che Marlowe, così come descritto da Chandler, è un uomo tutto d’un pezzo che non doveva, non poteva venire troppo alterato. Il pericolo era quello di dare vita a una imitazione modesta di Chandler, o peggio ancora, a una parodia. Ma era un pericolo che dovevo affrontare per forza, con l’auspicio di sconfiggerlo. Non sta a me giudicare il risultato. Il Marlowe de La bionda dagli occhi neri: Un’indagine di Philip Marlowe (The Black-Eyed Blonde – il titolo è uno di quelli suggeriti dallo stesso Chandler) – è la versione più vicina all’originale che sia riuscito a ideare, nella speranza di aver comunque ampliato e approfondito il personaggio senza risultare troppo importuno.
Penso che il mio Marlowe sia più stanco di quello di Chandler, più malinconico, e profondamente disincantato; meno arguto, ahimè, ma anche meno propenso a ostentare atteggiamenti spavaldi che non siano del tutto convincenti. Secondo me, il punto è proprio che Marlowe, sia quello di Chandler che il mio, non è affatto un duro, malgrado il contegno e il basso profilo che assume all’interno del mondo di delinquenti, poliziotti disonesti e femmes fatales – le mot juste! – che popolano i loschi ambienti in cui si avventura per lavoro. Marlowe è, forse, l’ultimo dei cavalieri erranti.
È facile dimenticare, dopo tutto questo tempo, a quale rivoluzione Chandler abbia dato vita, trasformando la narrativa pulp in letteratura. Non era solo uno straordinario scrittori di gialli; era uno scrittore straordinario a cui capitò di scrivere gialli. Ciò a cui ambiva, diceva, non era “il mistero, la violenza o la trama, bensì…una indovinata scelta stilistica”. “La storia non ha alcuna importanza”, diceva, “ciò che resta di un romanzo è lo stile; lo stile è l’investimento più prezioso per uno scrittore”.
Quando i suoi primi editori insistevano che i lettori non desideravano altro che l’azione, Chandler dimostrò che avevano torto. “Secondo me era una loro idea che il pubblico volesse solo l’azione, mentre in realtà, anche se non lo sapevano, a nessuno importava davvero dell’azione. Ciò che davvero interessava ai lettori, così come a me, era l’emozione generata dal dialogo e dalle descrizioni…”. In questo, come in molto altro, Chandler è stato un maestro dell’arte narrativa.
Detto questo, avrei mai potuto rifiutare l’invito a seguire le sue magnifiche orme?