Le cinque protagoniste del focus moderato da Nicoletta Vallorani, hanno raccontato il loro modo originale di essere scrittrici e di generare personaggi femminili tra esperienze vissute e storie immaginate.
Donne in nero era uno degli appuntamenti più attesi del Festival. Marina Fabbri con accanto una delle sei protagoniste dell’incontro, Antonella Lattanzi, oltre a sottolineare l’importanza di un evento dedicato alla creatività declinata al femminile, che non a caso è stato fissato l’otto marzo, ha anche rimarcato la simbolicità del ritrovarsi, almeno in due, presso la libreria Red Feltrinelli di Roma, per dare un segno di continuità con il passato, soprattutto con le edizioni milanesi, nelle quali Feltrinelli è stato (e si spera continui a essere) il luogo d’incontro per eccellenza della letteratura del Noir. Purtroppo solo dalle loro case o studi, hanno partecipato le altre scrittrici invitate al Focus: Margherita Oggero, Francesca Serafini, Rosa Teruzzi, Grazia Verasani e, in veste di conduttrice, Nicoletta Vallorani.
Come ha sottolineato Marina Fabbri, sintetizzando le loro biografie, le nostre ospiti sono «scrittrici molto diverse tra loro, pur con delle parentele di carattere letterario». Un incontro su un genere, il noir «che non è per elezione femminile – ha subito affermato Nicoletta Vallorani –. E questo ha implicato per tutte noi la capacità di dover aggirare l’ostacolo, di scavalcare il fosso, di trovare delle soluzioni in un territorio che certamente non è per noi familiare».
«A me i gialli erano sempre piaciuti e a un certo punto della mia vita mi sono messa a scriverne uno – ha rivelato Margherita Oggero –. In realtà avevo abbastanza paura della narrativa, del romanzo. E allora ho scelto il giallo anche perché potevo seguire dei binari. Successivamente, ho cercato di evadere, di andare oltre quei binari e procedere a ruota libera». «Nella scrittura noir femminile – ha proseguito Oggero –, ho notato intanto una capacità di cogliere gli aspetti laterali, ossia quel guardare con occhi strabici le storie che si narrano. Credo invece che la scrittura maschile, anche quando è grandissima, è poco propensa a deviazioni, ad abbandonare le strade maestre».
«In tutti i libri che ho pubblicato, anche quelli non noir, c’è una propensione a raccontare personaggi femminili, soprattutto quelli irregolari, con le loro infrazioni, con la loro emotività e intelligenza, e anche con le loro sciagure, stranezze – così ha esordito nel suo intervento Grazia Verasani –. Conoscendo meglio le donne, mi riesce più facile raccontarle». «Giorgia Cantini – riferendosi a uno dei suoi personaggi più celebri – è nata nel 2004, in un momento in cui sentivo la mancanza in Italia di un’investigatrice scritta da una donna. Volevo che fosse un po’ scalcagnata, ma non troppo, che avesse le sue inquietudini, però assolutamente rintracciabili in qualunque altra donna, che avesse le sue contraddizioni, che non fosse assolutamente paragonabile ai personaggi delle detective americane. Sicuramente, volevo che fosse ironica. Giorgia Cantini possiede un umorismo nero perché lei è abbastanza cupa come personaggio. In effetti, nasce dal mio amore sconsiderato per Raymond Chandler e per Patricia Highsmith».
«Io non ho avuto scelta – ha spiegato Rosa Teruzzi a proposito del suo approccio al noir –. Faccio la cronista di nera da tutta la vita e quando ho iniziato a scrivere mi son detta che mai avrei realizzato dei gialli. E alla fine so scrivere…solo gialli!». «Quando scrivo – ha proseguito Teruzzi –, mi piace rappresentare persone normali. I miei personaggi non sono poliziotte o magistrati, proprio per stare lontana da tutte le cose tecniche che sono costretta a conoscere per lavoro. Mi piaceva invece l’idea di una famiglia di donne che vive in un casello ferroviario e di una fioraia che indaga, seppur spalleggiata da una giornalista. Mai una delle vicende che seguo per lavoro è e sarà maltrattata nei miei libri. Tutte le cose realmente accadute non appartengono a nessuno dei miei libri, perché la scrittura è il mio spazio libero e voglio avere la libertà di inventarmi delle storie.».
«Le madri del mio romanzo sono molte di più di tre. Mi interessava indagare i tanti modi di essere madri, e anche di essere padri – ha spiegato Francesca Serafini parlando del suo Tre madri –. La relazione genitori-figli, a pensarci bene, dovrebbe essere semplice, naturale. Tuttavia, è anche la cosa più complessa perché non riceviamo un manuale delle istruzioni, e qualora ci venisse fornito, si allude a un unico modo di essere madre. Aggiungo, rispetto a quello che ha detto Rosa Teruzzi, che anche io ho scelto di scrivere un libro per prendermi uno spazio di libertà, però è come se all’interno di quest’opera fossero poi confluite tutte le cose che ho fatto, tutte le mie esperienze di scrittura».
A chiudere il ciclo di interventi, Antonella Lattanzi che, a proposito di Questo giorno che incombe ha detto: «Ho avuto paura di non riuscire a raccontare la maternità così come volevo, cioè che non arrivasse ai lettori. E ho avuto molta paura perché io non ho figli e quindi, mentre scrivevo, mi chiedevo chi fossi io per raccontare questo mistero così grande, questa realtà enorme che è l’essere madri. A me – ha confessato Lattanzi – non piace mai raccontare delle storie che abbiano a che fare con me stessa. Anche perché con me stessa ci vivo tutti i giorni, se posso vivere con qualcun altro che sia diverso da me, sono molto contenta. In tutti i romanzi che scrivo amo il momento in cui esco dalla mia testa per entrare in quella di un altro».