In occasione del trentennale del Noir in Festival, ripercorriamo anno per anno la sua storia attraverso le parole della co-direttrice del festival, Marina Fabbri.
Era ieri ma sembra un altro secolo, un altro pianeta, ma noi sempre lì a scrutare il futuro, perfino con i suoi possibili disastri. Erano gli 80 anni di Batman, e noi l’abbiamo festeggiato, eroe oscuro delle notti di Gotham City, con il bellissimo manifesto di Lorenzo De Felici, collaboratore di Robert Kirkman, il creatore di The Walking Dead. L’uomo-pipistrello, che a pensarci oggi, dopo il virus, mette un po’ i brividi, e ci ricorda la nostra appartenenza anche alla cultura pop del fumetto che racconta la paura, quella infantile come quella di un’intera società. Esattamente come fa un grandissimo scrittore come Jonathan Lethem, stella polare dell’edizione scorsa del Noir, che Dario Argento ha premiato a Como nella bella Villa Olmo (avrebbe potuto essere benissimo il set di un suo film) con il Raymond Chandler Award alla carriera. Indimenticabile per noi che l’abbiamo vissuto, l’incontro a cena dello scrittore di Motherless Brooklyn e Il detective selvaggio con un’ospite speciale, di quelli che sappiamo scovare solo noi: Angela Allen, che fu segretaria di edizione sul set del mitico Il terzo uomo, di Carol Reed con Orson Welles, scritto da Graham Greene, presentato in versione restaurata in occasione dei suoi 70 anni e con una masterclass di Adrian Wootton. Per tutta quella serata, Allen raccontò i segreti della Hollywood anni ‘50 e ‘60 lasciando Lethem, noto cultore di cinema, letteralmente a bocca aperta. Il nuovo spazio di Villa Olmo (magnifica dimora neoclassica in riva al Lario) fu tutto da sperimentare e perfettamente adeguato ai nostri racconti di paura, anche un po’ divertiti, come quelli di Gino Vignali (del mitico duo Gino & Michele) venuto a presentare il suo giallo con venature comiche, come gli si addice, o ritmati al passo marziale della Storia, riecheggiante nel romanzo di Giancarlo De Cataldo Quasi per caso, un giallo ambientato negli anni della Repubblica Romana. Mentre lo svedese Håkan Nesser, il nuovo astro del noir scandinavo portava al festival la trilogia di Intrigo, e dietro le tende delle sale della Villa si disegnavano i futuri scenari della produzione cinematografica di genere in Italia, grazie alla collaborazione tra il Noir in festival e AGICI, l’Associazione Generale Industrie Cine-Audiovisive Indipendenti, che lo scorso anno organizzava al festival l’ottava edizione del MICI (Meeting Internazionale del Cinema Indipendente). A Milano, come sempre, pulsavano i due poli del festival come luogo di ricerca e scoperta: l’Università Iulm, con i ragazzi del Master di Giornalismo ad approfondire la sorprendente attività di Giorgio Scerbanenco giornalista e a giudicare anche stavolta i film del concorso per il Premio Caligari al miglior noir italiano della stagione. Dall’altra parte la libreria Feltrinelli Duomo, con i suoi incontri letterari divenuti questa volta dialoghi a due, molto seguiti dal pubblico. Un incontro su tutti, oltre a quello assolutamente “storico” tra Lethem e De Cataldo sulla rivoluzione hippy degli anni ‘60: il mirabile dibattito su letteratura mainstream versus poliziesca, tra due campioni come Antonio Moresco (per l’occasione autore di un noir) e Gianrico Carofiglio. Mentre la lettura in solitario di brani del suo nuovo Bastardi da parte di Maurizio De Giovanni ha fatto circolare della autentica emozione tra il pubblico che ha affollato questo come tutti gli incontri. Al cinema, il concorso ha registrato la “nuova onda” che caratterizza oggi molti paesi di lingua ispano-americana con ben tre opere in gara che arrivavano da Cile (4×4 di Mariano Cohn), Argentina (Araña – Spider, di Andres Wood) e Brasile (Bacurau,di Kleber Mendonça Filho e Juliano Dornellese, che ha vinto il Black Panther Award) portando suggestioni inedite capaci di rinnovare la nostra idea di genere. Testimonial speciale e ideale di un cinema che, usando il genere, parla un linguaggio contemporaneo in cui impegno civile e memoria storica tornano a incontrarsi, è stato poi un maestro come Marco Bellocchio a cui abbiamo reso omaggio nell’anno de Il traditore e in occasione della laurea Honoris Causa conferitagli dall’università IULM. E se il Premio Scerbanenco è andato per la prima volta a uno scrittore sardo, Piergiorgio Pulixi, con L’isola delle anime, è stato un film deliziosamente francese (e belga) e intelligentemente letterario come Il mistero Henri Pick di Rémi Bezançon, con un fantastico Fabrice Luchini a chiudere un’edizione del festival davvero bella, per ora l’ultima in cui abbiamo potuto abbracciarci.
Chiudo questo diario di bordo lungo ormai due decenni con ringraziamenti non formali a quanti hanno fatto con me e Giorgio Gosetti (partner in crime) un viaggio ormai lungo tre decenni. Chiedo scusa a tutti quelli, e sono tanti, che non sono riuscita a nominare e che hanno fatto belle le 29 edizioni di Noir in Festival. Però ci sono nomi che vorrei davvero fare, e sono quelli (in rigoroso disordine alfabetico) di coloro che per questo festival hanno lavorato. Qualcuno se ne è andato, altri ci lavorano ancora, sempre mettendoci il cuore: prima fra tutte Emanuela Cascia che non smette di tenere le fila del nostro lavoro insieme a Simonetta Pacifico. Poi Gaia Furrer, Mazzino Montinari, Ilaria Avanzi, Stefania Albis, Francesco Bonerba, Giulia Rocca, Francesco Cappellotto, Moris Puccio, Darcy Di Mona, Cecilia Cortese, Rosa Polacco, Luca Di Leonardo, Luciano Barisone, Carlo Chatrian, Antonio Pezzuto, Patrizia Wachter, Valeria Camerini, Arianna Monteverdi, Delia Parodo, Alice Wetzl, Natasha Senjanovic, Rossella Ekta Girolami, Giovanni Marco Piemontese, Annalisa Donnarumma, Maria Teresa Cavina, Roberto Santachiara, Bruno Biagiotti, Federico Greco, Riccardo Ibba, Carlo Marzi, Iris Martin Peralta, Fabio Gandolfi, Sabrina Pellegrini, Cristina Dall’Oglio, Carla Bellucci, Giovanna Weber, Gaetano Savatteri, Fabio Angelilli, Maia Borelli, Caterina Angeretti, Marcella Manzini, Marta Salaroli, Chiara Stangalino, Daniela Basso, Silvia Nono, Irene Bignardi, Gianni Canova, Daniele Brunati, Marina Moretti, Pietro Berra, Bruno Voglino, Maria Paola Sutto, Annalisa Paolicchi, Dario Crida, Maurizio Di Rienzo, Paola Barbaglia, Edith Gunter Rubini, Alessandro Vaccari, Leonardo Gandini, Angelo Acerbi, Dario Pasqualini, Alessandra Amore e tutta Linea Grafica, Claudia Bergonzi, Silvia Introzzi, Federico Scanni, Gladys Lopatka, Ofelia Patti che con Carlo Canepa, Albert Tamietto e Leo Garin ci ha… tenuti a battesimo in alta montagna.
E ancora: Ilaria Zengarini, Barbara Melega, Domitilla Calamai, Elisa Resegotti, Carlo Lanfranchi, Letizia Maraini, Chiara Vatteroni, Enzo Pardo, Massimo Toreti, Fabio Riccardi con Tony Vagnarelli e i tecnici di KinoRoma, Mauro Camosso, Carlo Marzi, Luigi Ceragioli, Luisa Bergomi, Alessandro Invernizzi, Davide Lussetti, Valeria Gallo, Antonio Sagna, Leonard Catacchio, Umberto Berlenghini, Francesca Palleschi, Luca Crovi e Fabrizia Boiardi, Doris Longoni, Alessandra Conti, Simona Polvani, Rossella Bertolazzi e i ragazzi dello IED di Milano, Antonella e Maria Teresa Pizzetti, Cecilia Scerbanenco, Valerio Calzolaio, John Vignola, Sebastiano Triulzi, Sergio Pent e gli altri giurati del Premio. Saluto anche quelli che ci hanno voluto bene e che non ci sono più: Oreste del Buono, Fred Yunck, Carlo Di Carlo, Nico Orengo, Gianmario Feletti, Giovanni Cesareo, Giorgio Galli, Vittorio Spinazzola, Tecla Dozio, Carlo Oliva, Lia Volpatti, Claudio G. Fava, Graziano Braschi, Sergio Altieri, Luca Svizzeretto, Tullio Capocci, Eligio Milano, Andrea G. Pinketts.
“Un’edizione contagiosa” è stato il claim di Noir in festival 2018 per festeggiare i cinquant’anni di un film seminale come La notte dei morti viventi di George A. Romero e trasversalmente ricordare il ’68 attraverso il mito dello zombie, insieme a esperti come Dario Argento e Gianfranco Manfredi che hanno prodotto e scritto storie su quella inquietante figura, ieri esplosiva distruttrice del sistema, oggi perfetta metafora del nostro perenne stato di disorientamento.
Sempre seguendo la doppia vocazione che la nostra manifestazione aveva assunto da due anni per esaltare l’attività di formazione (a Milano nel campus universitario di IULM) insieme a quella di scoperta, spettacolo, glamour (al Teatro Sociale di Como), fedele al suo carattere interdisciplinare che da sempre fonde cinema e letteratura, memoria e attualità, fumetto e new media nel segno di un unico genere, il Noir del 2018 ha avuto due campioni esemplari in Joe Dante (Premio Noir alla carriera nel cinema) e Jo Nesbø (Raymond Chandler Award). Il primo, regista dei Gremlins, Piranha, Explorer, è stato l’ennesimo “sconfinamento” del festival in territori non propriamente noir, ma durante l’incontro si è subito confessato un amante del genere: «Mi piace molto il noir, purtroppo a Hollywood sono stati un po’ restii e non ho potuto realizzare il mio desiderio». Il secondo è lo scrittore europeo più amato in Italia e nel mondo, per il suo originale e contraddittorio protagonista, il detective Harry Hole, che aggiunge al chandleriano Marlowe non solo l’accento nordico ma anche la complessità di intrecci disegnati sullo sfondo di una società opulenta e controversa come quella scandinava. A Como Jo Nesbø è stato premiato da Alexander Greene, oggi nel Consiglio di Amministrazione di Raymond Chandler Ltd., nonché nipote dello scrittore Graham Greene, l’indimenticabile autore de Il fattore umano, e anche il primo ad aggiudicarsi il prestigioso premio alla carriera nel 1988.
Ma accanto a loro, altri protagonisti resero quell’edizione memorabile: ad esempio la giurata Katharina Kubrick, figlia del genio il cui capolavoro, 2001: Odissea nello spazio, compiva 50 anni, e che ci regalò una bellissima testimonianza sui segreti di bottega del padre. O anche la presidente di quella stessa giuria, Ning Ying, la più celebre regista donna cinese, tra i fondatori della cosiddetta “Sesta Generazione” e protagonista al Noir grazie alla collaborazione con l’Istituto Confucio di Milano. Così come le tre simpaticissime e bravissime scrittrici del nuovo mystery anglosassone, tra Agatha Christie e Patricia Highsmith: Jill Dawson (Il talento del crimine), Sujata Massey (Le vedove di Malabar Hill) e Sarah Pinborough (L’amica del cuore) che ci hanno raccontato con passione i loro libri. O l’intensa Carmiña Martínez, intreprete del bellissimo film colombiano Pájaros de verano (Oro verde) di Cristina Gallego e Ciro Guerra. Per non parlare dell’irresistibile Sergio Stivaletti, il maestro del trucco e dell’effetto di paura, venuto a ritirare il Premio Svizzeretto, o anche dell’inscindibile duo che compone la “ditta letteraria” Lars Kepler e che a Como venne a presentare Lazarus, la nuova avventura del detective Joona Lina, nove anni dopo la folgorante scoperta de L’ipnotista. O anche Igor Tuveri, in arte Igort, uno dei più grandi fumettisti italiani già anche sceneggiatore per il cinema (Accabadora, Last Summer) che al Noir in Festival ci raccontò in anteprima (e ci fece vedere) le prime immagini dell’attesa opera prima 5 è il numero perfetto, tratta dalla sua omonima graphic novel di successo. Tra tutti, un ricordo indelebile per simpatia e passione lo ha lasciato un narratore che ha costruito il suo marchio di fabbrica in atmosfere sospese tra cinema e letteratura come Enrico Vanzina (La sera a Roma).
Tra cinema e televisione, quell’anno si videro anche: l’incontro a distanza tra Johnny Depp (padre) e Lily-Rose Depp (figlia) nei due film che aprirono e chiusero la selezione ufficiale 2018: Les fauves di Vincent Mariette e City of Lies di Brad Furman; una femme fatale in stile Dirty Harry ma con il fascino assoluto di Nicole Kidman (che vinse il premio per l’interpretazione) in Destroyer di Karyn Kusama; Anna Kendrick (l’avevamo scoperta in Twilight), mamma perfetta che nella black comedy A Simple Favour di Paul Feig si scopre detective; il confronto a distanza tra il cinema europeo e quello latino-americano in un anno che ha visto l’argentino El Angel di Luis Ortega in corsa per l’Oscar al miglior film straniero e lo svedese Border- creature di confine di Ali Abbasi (film che poi abbiamo premiato) correre per l’Oscar europeo. Tornava anche l’appassionante sfida tra i magnifici sei film finalisti del Premio Claudio Caligari che, giudicati dalla giuria popolare degli studenti IULM guidati da tre critici, portavano alla fine sul podio La terra dell’abbastanza dei fratelli D’Innocenzo. E poi ancora: l’anteprima mondiale del nuovo serial Trapped ideato da Baltasar Kormákur venuto apposta dall’Islanda per onorare un patto d’amicizia con il festival e il ritorno di una serie ormai di culto come la canadese Cardinal. Mentre non sono mancati, come ogni anno, i campioni della scrittura noir italiana: Carlo Lucarelli con Peccato mortale, il re del best seller Donato Carrisi con il nuovo romanzo Il gioco del suggeritore, il veterano Gianni Biondillo (Il sapore del sangue), l’attento costruttore di trame Roberto Costantini (Da molto lontano), la travolgente Mariolina Venezia (Rione Serra Venerdì), i cinque finalisti eccellenti del Premio Giorgio Scerbanenco, vinto quell’anno da Patrick Fogli con A chi appartiene la notte. Ed è emblematico che mentre Cecilia Scerbanenco ci svelava con Il fabbricante di storie il suo inedito e appassionato ritratto del padre, il vincitore della Festa del Cinema di Roma, Edoardo De Angelis, membro della nostra giuria, ci confermava la sua passione per il noir anticipando che prima o poi l’antieroe Duca Lamberti sarebbe tornato sullo schermo con la sua regia. Ma il 2018 era anche l’anno del bicentenario di un romanzo seminale come Frankenstein, e noi scegliemmo le parole della sua creatrice Mary G. Shelley, legata peraltro al lago di Como, per chiudere il festival con una bella e intensa lettura di Maya Sansa (coadiuvata dal regista e traduttore Alessandro Fabrizi) di alcuni passi del romanzo nella nuova edizione che era uscita quell’anno senza censure da Neri Pozza. In fondo Frankenstein non era stato il primo zombie a raggiungere il successo mondiale?
Secondo anno da “emigrati” (di lusso però) nella grande Milano che si specchia nelle acque scure del Lago di Como. Non è facile ricominciare, e passata l’adrenalina della prima volta è ancora più difficile ripetere il miracolo. Eppure ci riusciamo anche questa volta, indomiti. E questa volta il miracolo ha un nome di donna: Margaret Atwood. La scrittrice venerata in tutto il mondo per la potenza evocativa del suo racconto distopico, autrice di quell’Handmaid’s Tale che è diventato un’icona della ribellione delle donne al giogo della società patriarcale, e che proprio quell’anno sbarcava anche in Italia come serie tv dall’enorme successo. Lei insomma, aveva accettato il nostro Premio Chandler, illuminando con il suo acutissimo sguardo azzurro il nostro nerissimo Noir, e ammaliandoci tutti, per prima Chiara Valerio che la intervistava, nell’incontro forse più affollato e vibrante della storia del festival, che ebbe luogo alla Fondazione Feltrinelli di Milano, da poco aperta e che avevamo invaso con i nostri misteri e i nostri enigmi da risolvere. Come affollato fu il secondo incontro con la scrittrice, offerto agli studenti di IULM e moderato da Antonio Scurati e Nicoletta Vallorani. Lei diede il là a quell’edizione, pour cause dedicata alla centralità femminile, a partire dalla scelta dell’immagine dell’anno, firmata da Alessandro Baronciani, evocativa dell’universo hitchcockiano ma anche della figura dell’ancella di Atwood, appunto. Per proseguire con la selezione cinema: la cugina Rachele di Daphne du Maurier nel film di Roger Michel con Rachel Weisz, la Marlina vendicatrice del film di Mouly Surya, la Madame Hyde di Isabelle Huppert nel film omonimo di Serge Bozon; o delle registe: Lynne Ramsay con You Were Never Really Here, o la giovane canadese Juanita Wilson e il suo Tomato Red. O ancora degli omaggi, come quello a una dark lady come Gloria Grahame. Per non parlare, infine, delle storie di vittime e carnefici raccontate dai romanzi di Paola Barbato, Simona Vinci, Antonella Lattanzi, tutti presentati al Noir.
Tanti sono stati i registi che hanno accompagnato a Milano e a Como i loro film per presentarli agli spettatori, ricordo tra tutti Aitor Arregi, co-regista di Handia, voce potente di una cultura fino ad allora ben poco rappresentata come quella dei paesi Baschi, che ha raccontato al pubblico del Teatro Sociale la genesi del suo lavoro premiato col Black Panther e poi se ne è andato in passeggiata solitaria lungo tutto il Lago, protetto da una giacchetta da cittadino ma col passo sicuro del montanaro. E che dire di Tarik Saleh, egiziano di nascita, cittadino svedese che in The Nile Incident Hotel aveva anticipato i giorni cupi del sequestro di Giulio Regeni raccontando i retroscena dellla presa del potere di Al Sisi e rischiando l’arresto al Cairo con il girato del suo film in valigia. Distribuito in Italia da Movies Inspired – una coraggiosa casa di distribuzione indipendente, il film venne premiato da noi nel nome del suo protagonista Fares Fares. Ma su tutti, la presenza più carismatica è stata quella dell’inafferrabile Abel Ferrara, a cui andò il premio alla carriera e la cui lezione di cinema e di vita, che ci regalò con la sua presenza, rimarrà un ricordo indelebile per tutti noi.
Grazie alla stretta collaborazione con l’università IULM, il cinema italiano diventa quell’anno protagonista con l’invenzione del Premio Caligari, dedicato al formidabile autore de L’odore della notte: un riconoscimento per il cinema che ha coraggio, che sa cambiare, che osa nei territori del genere. 8 titoli di film passati nella stagione, giudicati dagli studenti della Iulm sotto la guida di critici cinematografici, tra cui val la pena citare Ammore e malavita, dei Manetti Bros., Sicilian Ghost Story di Grassadonia e Piazza, La ragazza nella nebbia di Donato Carrisi (al festival anche in veste di romanziere con L’uomo del labirinto), e il vincitore di quell’anno, Gatta Cenerentola. All’insegna del cambiamento coraggioso anche il Premio Scerbanenco, che nel 2017 va al romanzo tinto di horror di Luca D’Andrea, Lissy. Così come stravagante e adrenalico è il cinema di Enzo Castellari, omaggiato con il Premio Svizzeretto come un classico, e in presenza di altri classici come Il silenzio degli innocenti (in versione restaurata), il commissario Maigret di Rowan Atkinson o anche il commissario De Luca, tornato nel romanzo di Carlo Lucarelli Intrigo italiano. Felici anche le scoperte letterarie, come lo spagnolo Marcos Chicot di L’assassinio di Socrate, e il francese Bernard Minier di Non spegnere la luce, mentre è sempre una certezza l’eccellenza dei campioni italiani del noir come Roberto Costantini, che quell’anno presenta da noi la nuova avventura del suo Mike Balistreri, Ballando nel buio, Marcello Fois con il suo trasognato commissario Striggio di Del dirsi addio (in finale al Premio Scerbanenco), e infine Marco Vichi e la nuova indagine del suo commissario Bordelli, Nel più bel sogno.
Per concludere, quale sintesi migliore dello spettacolo finale proposto da Gemma Carbone, intitolato Gul, che in svedese significa giallo, e scritto dalla regista e interprete insieme a Giancarlo De Cataldo, Giulia Maria Falzea e Riccardo Festa? Dedicato a un omicidio politico che sconvolse l’Europa, quello del premier svedese Olof Palme, un cold case per eccellenza che porta addirittura alla Cia, alla P2 di Licio Gelli e al coinvolgimento dei servizi segreti sudafricani, di terroristi curdi e neonazisti scandinavi. Segreti, social-democrazia e sangue: un ottimo cocktail per chiudere Noir in festival 2017.
L’anno del distacco dalla nostra “casa” montana che ci aveva cullato per 25 anni. Nuovi luoghi, Como e Milano, nuovo spirito, stesse date e un simbolo forte per segnare il nostro nuovo inizio: una pantera nera con occhi luminosi e bicolore (il blu del Lago di Como e il giallo della Milano di Scerbanenco) pronta a scattare per le nuove avventure nel segno del brivido.
Sul lago ci arrivammo chiamati da Daniele Brunati degli Amici di Como, che si era innamorato di noi e voleva a tutti i costi che portassimo il festival in un luogo tanto affascinante ormai anche per il grande cinema, George Clooney in testa (che tra l’altro si sarebbe trovato benissimo in concorso da noi)…. Mentre a Milano il nostro grande amico Gianni Canova, che tante edizioni passate aveva condiviso con noi, ci invitò a provare a portare il festival dentro la “sua” università, la IULM di Milano. Una sfida di quelle che ci sono sempre piaciute: un festival che nasce dentro un campus universitario, un progetto internazionale che si coniuga con una realtà locale, una ricerca di nuovo pubblico e nuovi professionisti da affiancare alla collaudata squadra del festival, insegnando sul campo le pratiche e lo spirito della promozione culturale. Rimanemmo subito affascinati sia da quella sfida milanese che dalla bellezza di Como e dalla giusta misura di una città elegante e raccolta, che avremmo dovuto conquistare molto in fretta. E lo facemmo subito, anche grazie a Roberto Saviano, che quell’anno venne a prendersi un Premio Chandler davvero speciale, nel segno del rinnovamento anch’esso. Lo splendido Teatro Sociale di Como, centro pulsante del festival, nella sera destinata all’incontro con Roberto e al suo nuovo libro, La paranza dei bambini, si riempì fino all’inverosimile e tanta fu la gente rimasta fuori. Saviano fu molto generoso, nel pomeriggio aveva accettato di incontrare i ragazzi dell’università dell’Insubria, e con loro aveva parlato a cuore aperto della difficile arte di crescere in un Sud sempre più soffocato dall’illegalità.
Due coincidenze felici ci portavano a quella nuova doppia edizione: si celebravano i 50 anni dall’apparizione di Venere privata, il primo romanzo noir di Giorgio Scerbanenco che unisce idealmente proprio Como e Milano nel segno di Duca Lamberti, e la scoperta che il maggior regista del genere, Alfred Hitchcock, aveva girato alcune immagini del suo primo film ( The Pleausre Garden) proprio sul lago, dalle parti dell’isola Comacina. Tra i film più attesi che presentammo quell’anno figurano certamente Three di Johnnie To che da Hong Kong si spostava alla Cina continentale; The Oath dell’islandese Baltasar Kormakur che lo vedeva in scena anche come attore e che alla fine vinse il premio come Miglior Film; Blood Father di Jean-François Richet con Mel Gibson assetato di vendetta contro chi minaccia la vita di sua figlia; Shut In di Farren Blackburn con Naomi Watts psicologa infantile coinvolta in un caso ai limiti del paranormale; e poi Wulu di Daouda Koulibaly, lo Scarface africano, il primo thriller nella storia di quel continente, una storia vera di droga, potere e corruzione che fu alla radice del default di intere nazioni sub-sahariane e a cui ancora Roberto Saviano avrebbe dedicato attenzione sulle pagine dei giornali americani con un vero endorsement per il film. Ma su tutti il ricordo più vivo fu l’aver accompagnato la seconda prova di regia di un appassionato Claudio Amendola: Il permesso. 48 ore fuori, con un sorprendente Luca Argentero detenuto in libertà vigilata per 48 ore, e la scrittura di Giancarlo De Cataldo. E siccome da sempre ci piacciono le indagini e le zone oscure del genere, ecco che nel programma appare a sorpresa… Fritz Lang. Non per celebrarne una volta di più il talento da regista ma come protagonista del bel documentario omonimo di Gordon Maugg che ripercorre infanzia e adolescenza di Lang fino al misterioso omicidio della sua prima moglie, Lisa Rosenthal. Le indagini della polizia e i sospetti che gravarono su di lui furono determinanti – sostiene Maugg – nella scrittura di “M: il mostro di Düsseldorf” e l’autenticità dei suoi film noir americani.
Per la letteratura, tra il Teatro Sociale di Como e lo spazio cinema tra i più cool di Milano, l’Anteo, per una volta “occupato” dagli scrittori negli incontri pomeridiani, insieme ai loro nuovi romanzi ci furono, oltre a Roberto Saviano: Gianrico Carofiglio, Donato Carrisi e Andrea Vitali, Sandrone Dazieri, Massimo Carlotto e Maurizio De Giovanni, le cui pagine del bellissimo Pane per i Bastardi di Pizzofalcone vennero lette da un intenso Vinicio Marchioni. Allo stesso tempo, grazie alla collaborazione con l’Istituto Confucio di Milano, scoprimmo lo spionaggio cinese con l’ineffabile Mia Jai, sbarcato a Como con un carico di esperienze vissute e capaci di schiudere uno spiraglio sulle complesse trame della spy story nell’altra metà del cielo e di testimoniare come il genere mantenga la sua vitalità anche sotto un regime poco propenso a lavare in pubblico i panni sporchi. Al Noir quell’anno sbarcò poi un trittico di raffinati giallisti europei: Friedrich Ani, Jesper Stein e Franck Bouysse. La formazione delle giovani leve del cinema e della scrittura di genere ci ha sempre appassionato e in quell’anno dell’esordio in Iulm ci prese ancora di più. Se a Como con Scuola Holden abbiamo dato spazio agli aspiranti sceneggiatori di horror e thriller con un workshop a porte chiuse, a Milano gli studenti della IULM poterono imparare molto dal contest Fight Cult (ideato per l’occasione come un vero “X Factor” per competenze giallistiche tra libri e cinema), dal panel dedicato ai giornalisti che passano alla fiction (tra gli ospiti Carlo Bonini, Fabrizio Roncone, Gianluca Ferraris) e da masterclass come quella di Donato Carrisi e Andrea Purgatori sulla scrittura di genere per cinema e televisione. Infine, il Premio Giorgio Scerbanenco che tornava a casa, a Milano, andò quell’anno al giallo tutto letterario di Fabrizio Stassi, La lettrice scomparsa.
Un anno di compleanni dei grandi maestri e di felici scoperte il 2015, l’ultimo del festival tra le bellissime nevi di Courmayeur, il venticinquesimo della nostra storia. Convinti come siamo che l’immaginazione del domani si fondi sulla memoria collettiva abbiamo intitolato quest’edizione a tre protagonisti del cinema che compivano cento anni proprio nel 2015: il “misfit” Anthony Quinn, il “terzo uomo” Orson Welles e Frank “faccia d’angelo” Sinatra, il cui profilo abbiamo affidato al racconto di un grande amico e complice del Noir fin dai suoi inizi, Adrian Wootton. Anno dei ritorni eccellenti, come quello di The X-Files di Chris Carter, già Premio Chandler Speciale alla carriera nel ‘96, e di Twin Peaks, 25 anni dopo la prima serie diretta da David Lynch: i pilot di entrambe le nuove serie proposti in anteprima al Palanoir. Ma anche il ritorno degli affezionati come J.C. Chandor, già regista del cult Margin Call (una nostra anteprima del 2011), che nel 2015 dirige Jessica Chastain e Oscar Isaac in A Most Violent Year. E a proposito di grandi maestri, ecco la prima volta di Spielberg in una spy story con Il ponte delle spie, in cui Tom Hanks negozia nella Berlino della Guerra Fredda uno scambio di agenti segreti con l’Unione Sovietica. Ma anche la follia e il grottesco di Alex de la Iglesia, che con Mi gran noche firma uno dei titoli più attesi di questa edizione, mentre sarà un suo conterraneo, Javier Ruiz Caldera, a vincere il Leone Nero attribuito dal pubblico all’irresistibile Anacleto, agente segreto, formidabile spy-comedy che omaggia i comics degli anni ‘60, interpretata da Imanol Arias e, tra gli altri, Rossy de Palma. Tra gli altri film che portammo quell’ultima volta a Courmayeur ci furono la Science Fiction inglese Brand New-U di Simon Pummell con la star di Downtown Abbey, Lachlan Nieboer, Into the Forest di Patricia Rozema con Ellen Page, e il premio del pubblico del Festival di Toronto, D’Ardennen del belga Robin Pront, mentre per gli spettatori più giovani un vero imperdibile gioiello: Piccoli brividi di Rob Letterman. Il protagonista assoluto dell’edizione dei 25 anni è stato però lo scrittore americano Joe R. Lansdale, venuto a ritirare il Raymond Chandler Award, e a presentare il suo nuovo romanzo Honky Tonk Samurai pubblicato da Einaudi, a dodici anni di distanza dalla sua prima apparizione al Noir, quando, nel 2003, l’infaticabile Chiara Stangalino ce lo segnalò come uno degli autori americani di genere più interessanti del momento. Autore sempre sorprendente, raffinato e spettacolare, amato dal cinema (gli rendemmo omaggio con la proiezione di Cold in July – Freddo a luglio di Jim Mickle e del corto Bart Talk di Lowell Northrop), sceneggiatore di successo (“Hap & Leonard”), portò a Courmayeur tutto il calore del suo Texas e la sua irrefrenabile creatività. Tra gli ospiti della letteratura sono sempre forti gli intrecci con il cinema e la tv, a cominciare da Maurizio De Giovanni, con I cuccioli della trilogia de I Bastardi di Pizzofalcone, che all’epoca esordiva come fiction per RaiUno, passando da Carlo Bonini e Giancarlo De Cataldo che, dopo il doppio successo letterario-cinematografico di Suburra (anch’esso approdato in tv) presentarono da noi il nuovo La notte di Roma, per finire con Carlo Lucarelli che fu presente con ben tre titoli: Il tempo delle iene (Einaudi), l’esordio nella fiction per bambini Thomas e le gemelle… e PPP. Pasolini, un segreto italiano, (Rizzoli). Quest’ultimo aveva ispirato il tema del suo dialogo con gli altri scrittori nell’incontro “Notte italiana. 40 anni di crimine e politica, dall’omicidio Pasolini a Mafia Capitale”, a cui prese parte anche l’amico David Grieco, che sull’omicidio del poeta aveva scritto il libro e diretto il film La Macchinazione, di cui a Courmayeur vedemmo le prime immagini. Ma Lucarelli ci regalò in quell’anno di anniversario anche la sua creazione più divertente, Coliandro, la serie di Rai2 di cui anticipammo una puntata, ridendo a crepapelle insieme al suo interprete Giampiero Morelli e ai suoi registi e affezionati del Noir, i Manetti Bros. E se la Scuola Holden portò nuovamente da noi i suoi laboratori di scrittura per l’editoria e per la serialità tv dedicati al genere, il Premio Scerbanenco presentò come sempre la sua rosa di scrittori finalisti: Romano De Marco, Grazia Verasani, Marcello Fois, Raul Montanari e Giampaolo Simi che, con Cosa resta di noi, vinse.
Gran finale poi all’insegna della scrittura e della musica appassionatamente intrecciate nell’arte incantatoria di Teresa De Sio, che chiuse il festival con un intenso reading in musica del suo secondo romanzo, esordio nel noir, L’attentissima, nel segno dell’apertura verso tutte le forme espressive che vogliano indagare le zone oscure della nostra vita: un vero marchio di fabbrica di Noir in festival. Vent’anni dopo, per citare Dumas – o più esattamente 23 edizioni dopo – stava venendo il momento di un arrivederci, o forse di un addio: ci saremmo lasciati alle spalle Courmayeur e “La Vallée” per una nuova avventura. Nell’entusiasmo della serata finale, terminata come sempre con un’allegra notte bianca all’Hotel Edelweiss con amici, colleghi, ospiti e perfino spettatori abituali, non sapevamo ancora cosa ci riservasse il destino e qualche lacrima si mescolava al caffè e al genepy della tradizionale grolla di buon augurio. A Courmayeur avevamo combattuto la diffidenza iniziale della gente di montagna (che poi sarebbe diventata la nostra vera forza), avevamo scoperto amicizie (come dimenticare il maestro Eligio Milano, la giornalista Luisa Bergomi, il “cofondatore” Carlo Canepa, l’insostituibile Albert Tamietto, il conviviale Leo Garin), trovato il pilastro del nostro gruppo nell’infaticabile Simonetta Pacifico, celebrato matrimoni (quello della co-fondatrice Emanuela Cascia), trasformato un Palaghiaccio in un cinema, aperto una bellissima sala nel nome di Dario Argento, girovagato per castelli medievali, cucinato “cene con delitto”. Come sarebbe stato possibile ricreare tutto questo con nuove idee, nuovi scenari, formule adatte a un presente sempre in divenire? Sembra il nostro destino: mai accontentarsi, sempre cercare strade diverse. Il seguito…alla prossima puntata.
È l’anno del doppio: di nero e giallo, di suspense e horror, di White Dog di Kornél Mundruczó (un film che sarebbe diventato di culto) e del Collezionista di ossa omaggio a Jeffery Deaver, un amico del festival che dopo essere stato con noi due volte e fatto parte della Giuria Cinema venne quell’anno a prendersi il Premio Chandler alla carriera. L’anno di The Salvation, il western ipnotico e violentissimo di Kristian Levring con Mads Mikkelsen, Eva Green ed Eric Cantona, ma anche di Storie pazzesche dell’argentino Damián Szifron, che ci fece morire dal ridere e dall’angoscia. E anche del ritorno di Kevin Macdonald di cui avevamo presentato L’ultimo re di Scozia, Oscar nel 2016, e che ora ci portava un inedito Jude Law sottomarino in Black Sea, poi risultato vincitore del Leone Nero di quest’edizione in cui, eccezionalmente, a decidere fu il pubblico. O dell’irresistibile Big Hero 6, dei campioni dell’animazione Don Hall & Chris Williams, film Disney dall’anima giapponese che quel Natale avrebbe sbancato il botteghino dei cinema italiani e non solo. E poi il restauro nel cinquantenario del coloratissimo e pop Sei donne per l’assassino di Mario Bava, che ricordammo con il figlio Lamberto venuto al festival anche nelle vesti di romanziere horror con il suo Solo per noi vampiri. Nel gioco del doppio entrano i due maestri Dario Argento, peraltro “figlio spirituale” di Mario Bava, che al festival presenta il suo libro autobiografico Paura, e Gabriele Salvatores, reduce dalla doppia fatica di Italy in a day e de Il ragazzo invisibile, a cui va il premio alla carriera nel cinema. E mentre l’amico Federico Zampaglione ci regala la sua nuova fatica cinematografica, il corto horror prodotto da Luca Argentero, Remember, con Carlo Lucarelli affrontiamo un interessante dibattito sulla doppia anima razionalista ed emotiva di quel romanzo criminale che fonde giallo e nero, di cui Deaver è certamente uno dei massimi campioni. I suoi romanzi infatti, da una parte affondano le mani dentro al torbido del male assoluto dei serial killer, dall’altra lo fanno guidati da un iper-investigatore come Lyncoln Rhyme. Luci e ombre si contrastano – ma anche compenetrano – nel dibattito sul nostro Sud, terra di mafia ma anche di una coscienza del valore dell’antimafia che passa dalla cultura, come insegna “Trame”, il festival diretto da Gaetano Savatteri con cui abbiamo fatto un gemellaggio. Un Sud esplorato anche dai cinegiornali dell’Istituto Luce che proiettiamo prima dei film in concorso. Così come un’altra bella collaborazione, quella con la Scuola Holden di Torino, ci porta a dialogare di Noir e nuova fiction italiana con gli esperti Stefano Sardo, Dario Bonamin e Francesca De Lisi. Da una scuola di scrittura agli scrittori affermati nella prestigiosa cinquina finalista 2014: Roberto Costantini, Romano De Marco, Marilù Oliva, Nicola Lagioia e Gianrico Carofiglio, che il Premio alla fine lo vince con un titolo in cui risuona tutta l’ambiguità del noir, Una mutevole verità. Di altrettanto grosso calibro gli scrittori che presentano i loro libri al Noir di quell’anno. A cominciare da alcuni autori dell’antologia I semi del male: Sandrone Dazieri, Marcello Fois, Enrico Pandiani, per passare a Carlo Lucarelli con Albergo Italia, alla rivelazione svedese Joakim Zander con Il nuotatore, e a Stefano Tura con Tu sei il prossimo, per citarne solo alcuni. Un’anteprima e due primizie invece per le serie tv, un mezzo espressivo in cui Noir in festival ha sempre creduto e che oggi è diventato la spina dorsale della fiction di genere: la coproduzione Norvegia-Stati Uniti Lilyhammer, con l’irresistibile Steven Van Zandt (Little Steven), e i mitici Fargo con Billy Bob Thornton e The Black List 2 con James Spader. Infine, ma non certamente ultimo, la celebrity del fumetto Guido Manuli ci concede quell’anno un’ironica e ispirata immagine che ci racconta come il passato sia misterioso, il presente cosparso di indizi delittuosi, il futuro uno spazio buio pesto. Ma noi siamo sempre quelli con l’impermeabile di Bogart, le mani in tasca intenti a scrutare i segnali per terra e in cielo per capire “chi è stato”.
Il 2013 è l’anno in cui si fa sentire l’eco della crisi economica, con i tagli al budget che rendono più difficile il lavoro organizzativo della complessa macchina di qualità che è da sempre il Noir in festival. Eppure a scorrere i titoli dei film presentati e i nomi degli autori che hanno partecipato a quella edizione, nessuno potrebbe pensare a una crisi. Anzi. Perché mi riferisco ai film di Ridley Scott, Johnnie To, Atom Egoyan, Denis Villeneuve (con Enemy, da Saramago), Lucía Puenzo, Peter Jackson, Enzo D’Alò, tra gli altri, che furono presentati in quella edizione tutta dedicata all’idea della città come “serbatoio” dell’inquietudine, uno degli ingredienti principali del noir, ben riflesso dall’immagine dell’anno, disegnata da Giacomo Costa. Per non parlare del poker d’assi degli attori che hanno illuminato lo schermo del Palanoir di Courmayeur: dal Colin Firth di Devil’s Knot (Egoyan), al Jude Law di Dom Hemingway (R. Shepard), a Michael Fassbender e Brad Pitt (ma con loro c’erano anche Javier Bardem, Penelope Cruz, Cameron Diaz e Bruno Ganz) de Il procuratore (Scott), tratto da un romanzo di Cormac McCarthy. Ma che dire del cast della Maratona dello Hobbit, presentato come evento speciale? Sono “stati con noi” Ian McKellen, Benedict Cumberbatch, Orlando Bloom, Cate Blanchett, Ian Holm ed Elijah Wood. Ospiti in carne ed ossa invece, gli italiani Stefano Incerti e i suoi attori Massimiliano Gallo, Esther Elisha e Roberto De Francesco, Ferdinando Vicentini Orgnani e i suoi attori Giovanna Mezzogiorno, Pietro Sermonti (che abbiamo coinvolto in una fantastica partita a tennis di “Doppio in giallo”!) e Lambert Wilson, una vera sorpresa per intelligenza, affabilità e inossidabile fascino. Le storie di quei film, come spesso succede nel noir, si intrecciavano con i temi scottanti della nostra realtà, ma anche con l’originalità dei loro autori, alcuni dei quali si sono rivelati delle belle scoperte fatte mettendo insieme il programma, come il basco Oskar Alegría e il suo incredibile viaggio alla ricerca di Man Ray, lo statunitense Alexander Moors, un artista video che aveva collaborato con Jennifer Lopez e Kanye West, o anche il danese Mikkel Nørgaard, già assistente di Lars von Trier. E infine anche alcune conferme, come la scrittrice-regista Lucía Puenzo, reduce dai successi di Cannes e del Premio Goya, con la terribile storia del rifugio argentino di Mengele raccontata in Wakolda.
Molti e interessanti gli scrittori nell’“anno di crisi”, ma uno su tutti è restato per sempre conficcato nell’anima: Henning Mankell, il nostro Premio Chandler, lo scrittore «spesso elogiato per aver elevato lo status dei “gialli”, un tempo disdegnati, a un regno più rarefatto» (B. Forshaw). Se è impossibile dimenticare i suoi libri (e il suo protagonista Wallander), vi assicuro che è altrettanto impossibile dimenticare i suoi occhi, penetranti e dolorosi allo stesso tempo. La data di consegna del Premio coincideva quell’anno con il 13 dicembre, che per gli svedesi è la festa di S.Lucia, ancora più importante del Natale, e quella sera lo scortammo sul palco accompagnato da due ali di fanciulle vestite di bianco, con in testa le corone di candele accese prestate dall’Ambasciata di Svezia (grazie alla generosa Ann-Louice Dahlgren). Dopo lo sconcerto iniziale per quella piccola inaspettata cerimonia, Mankell tirò fuori un foglietto e ci disse che non avrebbe voluto essere da meno di John Grisham, che su quello stesso palco aveva pronunciato un discorso di ringraziamento tutto in italiano. Una sfida tra giganti! E una grande emozione per quelle giovani allieve della scuola di danza di Courmayeur che credo non dimenticheranno più la magia di quella serata.
Tra gli altri scrittori, fummo felici di ritrovare Jean-Christophe Grangé, di scoprire l’israeliano Assaf Gavron, di salutare Enrico Vanzina e Roberto Cotroneo nell’inedita e riuscitissima veste di giallisti, di consegnare il Premio Scerbanenco a Donato Carrisi e di accogliere con il consueto calore gli amici Giancarlo De Cataldo e Carlo Bonini, che in Suburra ci raccontarono una Roma stretta nella morsa mafiosa. E i due scrittori parteciparono anche al bel convegno “Le mani sulle città”, moderato da Gaetano Savatteri, insieme al giornalista anti-mafia Lirio Abbate, allo scrittore-architetto Gianni Biondillo e al giudice-scrittore Giuseppe Gennari, tra gli altri. Ma anche il cinema fu oggetto di un bell’incontro, il terzo della serie concepita con Cinecittà Luce, dal suggestivo titolo di “Vedo nero”, per esplorare il rapporto tra il cinema nostrano e il genere di cui un tempo non troppo lontano era stato campione. Quell’anno si tenne un vero e proprio laboratorio con le più giovani leve della produzione nazionale, ispirato e condotto dal padre putativo del giallo italiano (nonché nume tutelare del festival) Dario Argento. E come avrebbe potuto mancare, lui, in questa inaspettatamente ricca edizione di un anno di crisi?
Alla fine arriva anche il fatidico 2012 ma, come sappiamo, non porta con sé la fine del mondo. Per noi italiani porta in dote però una memoria tragica: sono vent’anni che a Capaci e a Palermo abbiamo perso due eroi della lotta alla mafia, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. E’ una memoria triste, vestita a lutto, ma anche piena di rabbia, per la perdita e per le cose non fatte in quei vent’anni. Proprio come l’iconico ritratto di Rosaria Schifani, vedova di un uomo della scorta morto con Falcone a Capaci, realizzato dalla nostra più grande fotografa, Letizia Battaglia, durante quel funerale di Palermo che segnò per sempre la nostra vita. Un ritratto che mi colpì per la sua incredibile assonanza con l’immagine di una star del noir americano degli anni ‘40: come Joan Crawford in Mildred Pierce, Rosaria aveva sul volto la stessa durezza dipinta dal gioco di ombre e luci di una donna che sprigiona potenza e resa al dolore nello stesso tempo. La gioia nel sapere che Letizia ci avrebbe concesso la sua foto per il manifesto del Noir 2012 fu veramente indimenticabile! Ad oggi ritengo sia questo il manifesto più forte di tutte le edizioni passate del nostro festival.
Il tema della mafia sarebbe dunque stato il tema dell’anno, e nel suo segno avremmo messo in piedi un’edizione memorabile, non solo per la qualità dei film o dei libri offerti al pubblico, non solo per l’unicità dei personaggi che l’avrebbero popolata, ma proprio perché grazie a quel tema avremmo fatto del nostro festival un luogo in cui dire e sentir dire delle cose davvero importanti.
Per quel particolare sortilegio, di cui ho già scritto in precedenza, che fa dei programmi del Noir un’incredibile coincidenza di persone e opere con un’idea forte da comunicare, quell’anno il Premio Chandler non avrebbe potuto essere di nessun altro maestro del genere che non fosse Don Winslow, scrittore dalla penna insanguinata come un bisturi, affondato freddamente nella carne dei criminali che descrive nei suoi potentissimi romanzi, un autore che conosce la mafia italo-americana per contingenze biografiche e la racconta in tutte le sue possibili versioni. Conoscerlo, ascoltare i suoi racconti di periferia e le interminabili discussioni politiche, aggrappati ai divani del Royal di Courmayeur, è stato un vero privilegio, unito alla felicità di farlo incontrare a dei fans davvero speciali: i partecipanti del bellissimo convegno “Noi(r) e le mafie”, un incontro durato due giornate che ha segnato la storia del nostro festival. Sì perché quei partecipanti si chiamavano Pietro Grasso (che di lì a un paio di mesi sarebbe diventato Presidente del Senato e avrebbe citato nel suo discorso di insediamento proprio il famoso appello della vedova Schifani al funerale di Falcone), Lirio Abbate, Ivan Lo Bello, Salvatore Lupo, Andrea Purgatori, Maurizio Torrealta, Gaetano Savatteri, i nostri scrittori Marcello Fois e Patrick Fogli, quelli stranieri (che a Courmayeur avevano portato i loro ultimi libri entrambi con protagonista la mafia) Elmer Mendoza, Ewan Wright e appunto Don Winslow. Con un fuori programma divenuto leggendario: Nicolai Lilin, che era al festival per presentare il progetto del film con Gabriele Salvatores tratto dal suo libro Educazione Siberiana, intervenne al convegno per dare un minacciosissimo consiglio ai politici italiani: “Se volete liberarvi dei mafiosi dovete sparargli”, puntando verso il pubblico le dita a forma di pistola. Il gelo che si impadronì della sala subito dopo, mi fece capire che avrei dovuto prenotare la saletta del Caffé della Posta quella sera, e affidarmi al potere delle grolle per acquietare gli animi dei nostri ospiti. Intanto al cinema potemmo vedere quell’anno lo splendido Hitchcock, di Sacha Gervasi, con Hellen Mirren, Scarlet Johansson e Anthony Hopkins nei panni del grande regista alle prese con la realizzazione di Psycho. Ma anche La regola del silenzio, il film di Robert Redford sui conti ancora aperti col passato della generazione anti-sistema anni ‘60, graziato da un mega cast: Shia LaBeouf, Julie Christie, Stanley Tucci, Nick Nolte, Chris Cooper, Susan Sarandon, tra gli altri. Anche Toby Jones, tecnico del suono alle prese con l’horror made in Italy, fece scintille in Berberian Sound Studio, di Peter Strickland, mentre con i suoi 38 témoins Lucas Belvaux ci venne a trovare per la seconda volta dopo 10 anni da La cavale (e vinse il Premio della Giuria). Ma ci furono anche il thriller italiano di Davide Marengo, Breve storia di lunghi tradimenti, tratto dal libro di Tullio Avoledo, che era anche un omaggio al Queimada di Pontecorvo, e che festeggiammo insieme al regista e a parte del numeroso cast: Guido Caprino, Carolina Crescentini e Maya Sansa. Lo svedese The Hypnotist, di Lasse Hallström, tratto dal libro di Lars Kepler, pseudonimo di una famosa coppia di scrittori che avremmo ospitato alcuni anni dopo, o l’adrenalinico Grupo 7, dello spagnolo Alberto Rodriguez, sulla polizia corrotta, un tema sempre attuale in ogni tempo e ad ogni latitudine purtroppo. E che dire dell’ironico (da par suo) esercizio di stile di Roman Polanski nel cortometraggio A Therapy, prodotto da Prada, con Helena Bonham Carter e Ben Kingsley? Che piacque molto alla Giuria che però non potè votarlo, essendo un corto, forse perché era attraversato da quella giusta dose di follia accoppiata a un’eleganza eccentrica che era anche la cifra della Giuria di quell’anno, composta dalla simpaticissima Jennifer Lynch (figlia del regista americano e regista anch’essa), lo sceneggiatore e scrittore argentino Santiago Amigorena, il nostro Pippo Delbono (un inedito perfetto giurato), la sempre fascinosa e professionale Francesca Neri e Franziska Petri, attrice tedesca appena vista a Venezia in Betrayal di Kirill Serebrennikov. Una fantastica Giuria che non premiò però uno dei due film del mio cuore: Los Salvajes del messicano Alejandro Fadel, ma mi ricompensò con il primo premio all’altro: Killer in viaggio (Sightseers), di Ben Wheatley. Quell’anno vi furono moltissimi degli amici che ormai da tempo venivano a trovarci se potevano: da Salvatores a Luca Argentero, da Massimo Carlotto (che venne anche come autore del radiodramma messo in scena da Sergio Ferrentino nella serata conclusiva) a Roberto Costantini, da Federico Zampaglione a Claudio Bonivento, per finire con Maurizio De Giovanni che con Il metodo del coccodrillo vinse meritatamente il Premio Scerbanenco, che crediamo gli abbia in seguito portato molta fortuna. Come fummo fortunati noi di poter presentare un piccolo capolavoro come Frankenweenie, di Tim Burton, uno dei regali più belli che potevamo fare agli appassionati del Festival.
Il manifesto del 2011 venne disegnato da Valentina Vannicola (grazie al suggerimento dell’ottimo Luca Di Leonardo) e a guardarlo oggi sembra tragicamente profetico: quella bolla di vetro che separa la figura umana da un paesaggio desolato, non può non farci pensare alla pandemia di oggi. Accade quasi sempre così col Noir in festival, lo prepari tempo prima seguendo le intuizioni di tutto il gruppo, le direzioni diverse del vento creativo del momento, inviti persone che sono come delle monadi e una volta arrivate al festival diventano parti dello stesso corpo, come se avessero sempre aspettato quel momento per fondersi con altre monadi, altri artisti, altre idee e tutti convergenti verso un unico obiettivo: indagare il lato oscuro.
Alle soglie della “fine del mondo” profetizzata pare dai Maia per il 2012, ci eravamo consegnati interamente all’Apocalisse, tema della XXI edizione del Noir, e avevamo coinvolto “complici” come Andrea Camilleri, Petros Markaris, Lawrence Block, Stephen Frears, Antonio Scurati, Frederic Schoendorfer, Michael Aloni, Franco Bernini, Mimmo Calopresti, Wilma Labate, Nicola Giuliano, Carlo Bonini, Sergio Rizzo, Gaetano Savatteri, Aldo Giannuli, Dario Argento, Tommaso Pincio, Giulio Sapelli, Tullio Avoledo, Gianni Canova, Ugo Barbàra, Gianni Biondillo, Donato Carrisi, Roberto Costantini, Valerio Varesi, Rossana Podestà, Otto Penzler, Carolina Crescentini, Maya Sansa, Luca Argentero, Michele Riondino per citarne solo alcuni. Ognuno col suo specifico contributo, chi protagonista di film, chi autore di libri, chi premiato alla carriera con il Chandler come i Dioscuri del noir Camilleri e Markaris, chi esperto di trame segrete o indagatore dei grandi e piccoli delitti umani, tutti hanno fatto di questa edizione “apocalittica” un’edizione indimenticabile. L’intuizione iniziale fu premiata da una scoperta legata al passato del nostro territorio di caccia: un singolare fatto di cronaca avvenuto a Courmayeur nel luglio del 1960, l’attesa della fine del mondo sul Monte Bianco da parte di una setta di famiglie milanesi e torinesi guidate da un improbabile “profeta”, Fratello Emman, al secolo il pediatra Elia Bianca. Fu un bizzarro avvenimento che ebbe risonanza in tutto il mondo e di cui esistono testimonianze d’eccezione come quella di Dino Buzzati che ne scrisse sul «Corriere della Sera», o quella di Gian Antonio Stella che ne ha dato conto in un romanzo.
Così anche la riesumazione di un romanzo dimenticato del nostro nume tutelare letterario, Giorgio Scerbanenco, si era messa in risonanza con il mood apocalittico. Il nostro scrittore, che in quell’anno avrebbe compiuto 100 anni, nel 1963 aveva pubblicato un singolare romanzo fantascientifico, Il cavallo venduto, ambientato in una spettrale Milano post apocalisse, di cui ci raccontò tutto il compianto Giuseppe Lippi in un bellissimo incontro al Jardin de l’Ange.
Storica, anche se privata, rimase quell’anno la litigata a cena tra Stephen Frears (omaggio speciale del festival con due suoi noir del primo periodo: Gumshoe e Fail Safe) e Petros Markaris sulla questione Grecia-trojka europea, in cui i due per poco non arrivarono agli insulti, con Giorgio a trascinar via Markaris (strenuo difensore della Grecia vittima delle avide speculazioni dei banchieri europei) e io a cercar di distrarre Frears (che vedeva i greci come satrapi avvolti nei loro debiti eterni) con improvvisati discorsi frivoli per cui ebbi il provvidenziale aiuto del grande Adrian Wootton che aveva convinto Frears a venire da noi. E come dimenticare poi l’allegra ubriacatura di tutto il gruppo della Giuria Cinema, che durante il festival si era consolidato più di una classe di fine liceo, e che quasi ogni notte se ne andava a zonzo per Courmayeur cantando a squarciagola fino alle tre del mattino? Alla testa degli allegri ragazzi il Presidente, Dario Argento. Complici del decano dei film di paura: Vinicio Marchioni, Antonello Grimaldi, i già citati Carolina Crescentini e lo scrittore hard boiled più prolifico d’America Lawrence Block, e infine il maggiore editore francese di noir François Guérif.
Eppure siamo stati anche seri, anzi serissimi, presentando il folgorante libro dei giornalisti d’inchiesta del «Guardian» Luke Daniel Harding e David Leigh: WikiLeaks. La battaglia di Julian Assange contro il segreto di Stato, o anche la ricognizione del terrificante strapotere mondiale delle mafie contenuta nel libro di Federico Varese Mafie in movimento.
Tra i tanti film di quel fortunatissimo anno, quello del cuore è sicuramente l’irresistibile black comedy Bernie, un vero gioiello a firma Richard Linklater con Jack Black, Shirley MacLaine e Matthew McConaughey, mentre ricordo il ritorno di Poirot/David Suchet con il suo Assasssinio sull’Orient Express, la prima mondiale di Paranormal Xperience 3D, e l’attesissimo In Time di Andrew Niccol. E ancora il film di Sergei Bodrov A Yakuza’s Daughter Never Cries o la sceneggiatura di Guillermo Del Toro per Don’t be Afraid of the Dark con Katie Holmes e Guy Pearce. Ma gli indimenticabili, per ragioni opposte, sono senz’altro l’americano Margin Call, che affidava a Kevin Spacey, Paul Bettany, Jeremy Irons e Demi Moore (tra gli altri) il compito di spiegarci la crisi finanziaria globale del 2007 in cui eravamo ancora immersi nel 2011, e l’inglese We Need To Talk About Kevin, di Lynne Ramsey, con una stupefacente Tilda Swinton e l’intenso John C. Reilly. Concluderei con i premiati. La vittoria al cinema di Headhunters, il film di Morten Tyldum tratto dal romanzo di Jø Nesbo, l’autore norvegese che avevamo “battezzato” al Noir nel 2005 e che stava diventando ormai una star internazionale. Quella letteraria del duplice Chandler ad Andrea Camilleri e Petros Markaris che, come scrive Gosetti nel suo bel pezzo in catalogo, “sono proprio due facce della stessa medaglia, la brulicante Atene e la sonnolenta Vigata hanno la stessa lingua e ci rimandano una medesima immagine: un universo di caos in cui l’individuo cerca la logica e si arrende, magari con un sorriso, all’imprevedibilità dell’animo umano. E sceglie da che parte stare”.
Il 2010, l’anno dei nostri vent’anni, in qualche modo fu spensierato e carico di energia proprio come lo si è a quell’età. Trovammo film bellissimi, autori importanti, incontri necessari e coinvolgenti e… forse ci fu anche la neve. Era una tradizione che arrivasse con noi a Courmayeur, come a voler calmare col suo candore tutto quel nostro nero fibrillante.
Come nei vent’anni che si rispettano, fu l’anno dei grandi innamoramenti: al cinema ad esempio, con i tanti bellissimi film, a cominciare dal vincitore Carancho, di Pablo Trapero, passando dall’incredibile Sound of Noise, noir ironico e geniale su una scombinata band svedese (i veri Six Drummers) che mette a soqquadro un’intera città per eseguire la più grande performance musicale della storia, all’anteprima italiana del terzo film delle Cronache di Narnia, Il viaggio del veliero, che proiettammo in 3D, a Winterbottom (The Killer Inside Me) che venne ad incontrare il pubblico di Courmayeur, e Olivier Assayas di cui vedemmo la storia di Ilich Ramírez Sánchez, conosciuto come “Carlos”, uno dei terroristi più ricercati del pianeta. L’incontro a lui dedicato con il giornalista-produttore Daniel Leconte rimarrà impresso a lungo nella nostra memoria. Per arrivare poi al perfetto The Housemaid del sud-coreano Im Sang-soo o a Never Let Me Go, scritto da Alex Garland da un romanzo di Ishiguro. Fu anche l’anno degli immancabili Manetti Bros., che come sempre ci portavano le loro ultime produzioni: in realtà senza di loro non ci potrebbe essere mai veramente un Noir in festival! Come non ci sarebbe il vero poliziottesco italiano senza Umberto Lenzi, che quell’anno omaggiammo però come regista di Kriminal, una delle parodie trash dei supereroi anni ‘60 della divertentissima rassegna curata dall’ineffabile Marco Giusti, ma anche come scrittore e inventore del commissario antifascista Astolfi che lavora nella Cinecittà degli anni Quaranta.
Ma se parliamo di scrittori e di innamoramenti ecco che si affaccia alla memoria in tutto il suo fulgore Michael Connelly, vincitore nel 2010 del Premio Raymond Chandler alla carriera. Scrittore sublime, creatore del poliziotto Harry Bosch e narratore di una Los Angeles “giardino delle delizie” pieno di lati oscuri che dipingono il caos del mondo. Durante il pranzo che lo accolse, appena arrivato e ancora sotto jet-lag, in una improbabile sala dell’hotel Royal le cui pareti erano piene di trofei di caccia di cervi con palchi di corna che sembravano foreste, gli chiesi se il nome del suo protagonista gli venisse da un suo conflitto con un trapano o con una lavatrice. Lui rise e fu subito sollevato di trovarsi in mezzo a persone che non si prendevano sul serio, poi passò il resto del pranzo a istruirci su Hieronimus Bosch che, ovviamente, conoscevamo tutti! Alla fine del suo breve ma intenso soggiorno, andò via con le lacrime agli occhi perché avrebbe voluto restare ancora, e dalla affollata libreria milanese in cui il giorno dopo presentò il suo libro ci omaggiò raccontando al pubblico di non aver mai partecipato a un festival così bello come il nostro.
Altro autore, anzi autrice, altro innamoramento, anzi reinnamoramento: la combattente Maj Sjöwall, insieme al marito Per Wahlöö un vero mito internazionale della scrittura di genere degli anni’70-80, una che era convinta che, “alla fine, in fondo, svaligiare una banca sia un crimine meno grave che fondarla”. Nel 1988 avevamo avuto con Giorgio e Irene Bignardi la fortuna di conoscerla al Mystfest di Cattolica, e ora tornava al Noir in festival più carica che mai.
Una foto segna la storicità di quel 2010: Connelly in mezzo a Carlo Lucarelli (venuto a intervistarlo e a parlare della strage di Bologna) e Giorgio Faletti sullo sfondo della nostra “baita della letteratura”, il Jardin de l’ange, nella piazza centrale del paese.
Che emozione grande presentare Faletti, e che folla traboccante all’Ange! Eppure il ricordo ancora più bello che ho di lui è quello dell’incontro con i bambini del Mini Noir, il festival per i più piccoli che aveva sempre più successo (ci fu anche uno show di Geronimo Stilton quell’anno), e che subissarono di domande un Faletti evidentemente felice di mettersi in gioco davanti a quei terremoti di curiosità. Giorgio era già di casa a Courmayeur, e attraversare il paese con lui sembrava come scortare il Papa, tante le manifestazioni di affetto che lo circondavano ad ogni passo. Si incuriosì moltissimo anche della mostra che avevamo allestito per celebrare i nostri vent’anni, con i ritratti di tutti gli scrittori italiani di noir che il bravo fotografo Francesco Galli aveva colto al lavoro nei loro studi. Tra i ritratti c’era anche quello di Elisabetta Bucciarelli, che quell’anno venne a prendersi il Premio Scerbanenco, andato finalmente a una donna! Tra i finalisti, anche un Maurizio De Giovanni agli esordi della carriera e già molto promettente. Tra i tanti ospiti da ricordare, i giurati: Tito Topin (l’autore del commissario Navarro), Carlotta Natoli e Guido Caprino (tra gli attori più rappresentativi della nuova generazione), il direttore di Sitges Angel Sala e un infreddolito Silvio Orlando, sempre coperto di strati di lana e piumini ma felice di godersi il festival e il magnifico cibo valdostano.
Ecco, infine, l’ultima edizione del primo ventennio del festival, nel 2009. Ricordi forti e numeri emozionanti: cinquanta anni dalla morte di Raymond Chandler, nel cui nome assegnammo il premio omonimo a un autore dalla voce “contro” forte e potente: il cubano Leonardo Padura Fuentes. E poi l’indagine su un strage ancora avvolta nei misteri italiani: a quarant’anni dall’attentato di piazza Fontana le verità ufficiali e quelle credibili si scontrarono una volta di più. Ma il nostro sguardo non era rivolto solo al passato e dalla cultura isolana sbarcò sul Monte Bianco l’agguerrito drappello degli scrittori sardi, che Marcello Fois portò a Courmayeur, alcuni quasi loro malgrado, come Michela Murgia che scoprì solo da noi la sua vena noir. Con Giulio Angioni, Giovanni Maria Bellu, Wilson Saba e Giorgio Todde non è stato soltanto un incontro tra e con scrittori, ma un momento di scoperte, di racconto di una cultura bella e isolata, una prova di grande generosità e onestà intellettuale. E di quell’anno non dimenticheremo i brividi del “caso Vallanzasca”, che si aprì sui giornali quando annunciammo l’intenzione di presentare il bel libro di Carlo Bonini, scritto appunto con Renato Vallanzasca, per raccontare non solo la storia di un criminale perfino più famoso di Mike Bongiorno nell’Italia degli anni Settanta, ma anche la storia e la genesi di quella fama. Vallanzasca ovviamente non venne a Courmayeur, non avrebbe mai potuto, ma il dibattito sulla fascinazione della società “per bene” nei confronti del male (che si perpetua con il successo dei vari “romanzi criminali” televisivi) ci fu, con i complimenti del pubblico. Che dire degli scrittori della “Pagina buia”, come nel tempo si era venuta a chiamare la sezione degli incontri letterari? Che sono stati tutti eccellenti e fantastici ospiti, da Gianni Canova, a Sebastian Fitzek, da Matt Haig a Tarquin Hall, da Marco Lombardi a Juan Madrid, Carlo Martigli, e i due Jonathan: Rabb e Trigell.
Il programma cinema venne rischiarato dalla bellezza diamantina di Diablo Cody, la sceneggiatrice di Juno e al festival autrice di Il corpo di Jennifer. La Giuria del cinema: una delle più pazze e spensierate mai avute. Guidata dall’imperturbabile poeta di New Orleans James Sallis, poté contare sulla serietà musicale e cinefila di Samuele Bersani, l’istinto mediterraneo di Donatella Finocchiaro, l’irresistibile simpatia dello sceneggiatore Jorge Guerricaechevarria, la dolce saggezza di Melanie Lynskey, neozelandese con una vocazione per il genere che comincia quando, ancora bambina, impersonò un’involontaria assassina in Heavenly Creatures. Loro hanno premiato senza dubbio i titoli più belli e interessanti: Vengeance, capolavoro di Johnnie To e, Premio Speciale della Giuria, l’omaggio al cinema della blaxploitation, Black Dynamite di Scott Sanders, fantastico dj della festa di chiusura, accompagnato da Michael Jai White, una montagna di muscoli e di simpatia.
Dulcis in fundo: il mini concerto di Federico Zampaglione, leader dei Tiro Mancino e degli Alvarius, ma da noi anche in veste di sorprendente regista, con il suo horror Shadow che – dopo Courmayeur – avrebbe fatto il pieno di premi in moltissimi festival internazionali. A conferma che, oltre a far divertire pubblico e ospiti, ogni tanto riusciamo a portar fortuna agli artisti del noir.
2008: ce l’abbiamo fatta a diventare maggiorenni! E in premio abbiamo avuto un palazzetto del cinema tutto nuovo, una casa tutta da riempire di immagini e suoni. E noi l’abbiamo fatto subito con Ancora sulla cattiva strada, spettacolo di Gabriele Salvatores che rilegge il fortunato romanzo di Ammanniti Come Dio comanda, tra cinema, musica e teatro con Elio Germano, Filippo Timi e la musica dei Mokadelic. Il 2008 è l’anno del Complotto e delle Donne, con le spie analizzate al microscopio da esperti e giornalisti e messe alla berlina dal cinema parodistico italiano degli anni Sessanta, la cui retrospettiva intitolata “007 all’italiana”, curata da Marco Giusti e con i sapidi contributi di Francesco Puma, ancora rallegra i nostri ricordi. Soprattutto perché ci permise di accogliere a Courmayeur un’insolita quanto gradita “star” come Neil Connery, fratello-copia carbone dell’insuperato James Bond scozzese, e che fu protagonista di una irresistibile pellicola d’epoca, in parte girata a Courmayeur e giustamente intitolata O.K.Connery. Le donne però, questa volta non facevano da contorno come nei film di Bond, ma a Courmayeur furono grandi protagoniste. Una per tutte, il Premio Chandler Alicia Giménez-Bartlett, la scrittrice innamorata di Barcellona e della sua umanissima protagonista, il commissario Petra Delicado, una che dice schietta: «Freud non mi è molto simpatico. Solo la chiesa cattolica è riuscita a dare del filo da torcere alle donne più della psicanalisi». Alla sua voce si aggiunsero quelle dell’inglese Sharon Bolton e della svedese (bellissima e durissima) Liza Marklund. E poi, l’America. Il paradiso perduto del genere noir, rimpianto dalla sottile ferocia dei romanzi di Don Winslow, scrittore-giurato che veniva in Italia per la prima volta e che da allora è diventato un autore di culto, inseguito dalla raffinata capacità narrativa di Richard Price, lo scrittore del Bronx che ha dato al cinema opere come Il colore dei soldi, New York Stories o Shaft. L’America sognata e odiata anche al cinema di cui erano ambasciatrici a Courmayeur le magnifiche interpreti del film vincitore Frozen River, Melissa Leo e Misty Upham, la bella attrice native american che sarebbe tragicamente scomparsa nel 2014. Di alto livello la sezione dei documentari, con pellicole memorabili come Oso Blanco, Apology of an Economic Hitman, Parafernalia o Les Nufragés des Andes, vere indagini sulle mille sfumature del male in paesi diversissimi tra loro.
Gillo Pontecorvo quand’era direttore di Venezia usava dire che cercare i film per un festival è come andar per funghi, ci sono annate buone e altre meno generose. Il 2007 fu particolarmente generoso con noi. Tanto per cominciare venne a ritirare il Chandler l’inventore del legal-thriller, il grande scrittore avvocato e già magistrato Scott Turow, a cui il festival tributò anche un omaggio cinematografico, e che ci raccontò la sua storia personale in un memorabile incontro con l’ex magistrato Gherardo Colombo, grande combattente sul fronte italiano della lotta all’illegalità. Al Noir intanto cominciavano le ricorrenze: i dieci anni del Premio Scerbanenco la cui Giuria, presieduta dall’indimenticato Nico Orengo, ed eccezionalmente composta per quell’anno da alcuni scrittori vincitori delle precedenti edizioni del concorso: Sergio Altieri, Pino Cacucci, Massimo Carlotto, Giancarlo De Cataldo, Marcello Fois, Barbara Garlaschelli, Leonardo Gori, Giancarlo Narciso, Andrea Pinketts, Claudia Salvatori, assegnò il riconoscimento a Francesco Guccini e Loriano Macchiavelli. Mentre gli altri giurati (Cecilia Scerbanenco, Lia Volpatti, GianFranco Orsi, Ernesto G. Laura e Carlo Oliva) consegnarono il “Premio del Decennale” a Carlo Lucarelli per il complesso della sua opera, e a Romanzo criminale di Giancarlo De Cataldo come miglior romanzo noir degli ultimi 15 anni. Per continuare sul fronte della scrittura, quell’anno vennero da noi Jason Godwin, Michael Gregorio (in realtà una coppia), Sophie Hannah, John Harvey, Asa Larsson, Jeff Lindsay (lui anche giurato per il cinema, e autore della celebrata serie Fox, Dexter), Cody McFayden, Biagio Proietti, Serge Quadruppani e Rebecca Stott. Mentre il cinema della realtà, nella bella sezione “DocNoir” che con gli anni era cresciuta sotto le cure di Luciano Barisone e Carlo Chatrian, offrì autentici gioielli come The Dictator Hunter, L’Avocat de la terreur, l’iraniano It’s Always Late For Freedom e il singolare ritratto del felliniano Mago Rol realizzato da Nicolò Bongiorno. Cinema scatenato al Palanoir con George Romero e i suoi morti viventi di Diary of the Dead, il regista del Postino, Michael Radford con Flawless, con Michael Caine e Demi Moore, e poi autori come Kormàkur, Jieho Lee, Xavier Gens, Pablo Fendrik che con El asaltante ci ha fatto incontrare lo straordinario attore argentino Arturo Goetz. Ma la proiezione che rimarrà nella memoria degli spettatori di Courmayeur 2007 sarà comunque quella di mezzanotte dei 30 giorni di notte, di David Slade, in cui lo sceriffo Josh Harnett deve combattere contro terribili vampiri che assediano un’isolata cittadina dell’estremo nord dell’Alaska. All’uscita dal Palanoir, allora situato nel distante Palaghiaccio di Dolonne, infuriò una tale bufera di neve che fece dubitare i temerari spettatori che il film fosse davvero finito. Come non ricordare infine la follia di Help!, di Richard Lester, il film del 1965 con i Fab Four al centro di un intrigo pazzesco, inseguiti da sette segrete orientali e protetti da Scotland Yard, a riprova che il noir non risparmia nessuno, nemmeno i mitici Beatles (di cui si festeggiava quell’anno il 50mo anniversario)…
La Storia che non finisce ma si trasforma è al centro del festival 2006, l’anno in cui sudammo di più per avere con noi il Premio Chandler, uno dei più prestigiosi, Elmore Leonard. Grande maestro invisibile, innamorato dei discorsi della gente di Detroit e di tutte le città violente d’America, che fa sua la lezione di Hemingway e Steinbeck e la traduce in immagini così vive, che il cinema le ha adottate da subito, dai copioni western a Tarantino. Intorno a lui costruimmo un percorso attraverso le città del noir, con gli scrittori stranieri e italiani che proponevano la loro visione del luogo deputato delle storie di violenza da sempre al centro del genere. Dunque da Detroit “andammo” alla Reykjavik di Arnaldur Indridason, alla Oslo di Jo Nesbo, alla Londra di Andrew Taylor, alla Brighton di Peter James alla Miami di James Hall. Arrivammo perfino a Budapest, anche se viaggiando a ritroso nel tempo, per celebrare la memoria della rivolta d’Ungheria del 1956, con il bel progetto di Maia Borelli e Antonella Ottai. Ma con noi ci furono anche autori come Harlan Coben, il giallista preferito da Bill Clinton, Giorgio Faletti, Marcello Fois, Enrico Franceschini, Maxim Jakubowski, Franco Scaglia. Al cinema, a fianco dell’omaggio a Leonard, vedemmo film splendidi come il vincitore del Leone Nero, Alpha Dog di Nick Cassavetes, con una indimenticabile Sharon Stone; La Tourneuse des pages, di Denis Dercourt, l’islandese Children divenuto nel tempo oggetto di culto, Lonely Hearts con John Travolta e Salma Hayek, l’intenso Salvador dello spagnolo Manuel Huerga, il superbo The Last King of Scotland con un gigantesco Forest Whitaker, giustamente premiato con un Oscar. E poi sì, lo confesso, ci siamo divertiti tutti con l’imbranato Jean Dujardin nei panni di OSS 117 nel film forse più demenziale della nostra storia. Prevale invece la commozione per Denzel Washington innamorato “oltre la vita” in Deja vu, di Tony Scott, un vero thriller mozzafiato, cui faceva da controcanto il delizioso film animato Giù per il tubo, dei produttori di Galline in fuga e Wallace & Gromit, riservato ai ragazzi ma applaudito anche dagli adulti.
Proprio il MiniNoir ci porta, nel 2005, una delle nostre anteprime più prestigiose: Le Cronache di Narnia. Fuori del Palanoir, la grande statua di ghiaccio del Leone di Narnia, realizzata con la benedizione di casa Disney, riuscì a non sciogliersi prima della fine del festival. Un vero miracolo. Come incontrare il Premio Chandler George Pelecanos, cantore hard-boiled della Washington dei ghetti, la cui scrittura suona come un fumoso locale jazz, e la cui devozione al cinema è provata dall’aver prodotto Barton Fink dei fratelli Coen. Sul fronte della scrittura: la scoperta di giovani talenti come quello di Davide Dileo, meglio noto come Boosta e come tastierista della band Subsonica, o quello, più esperto, dell’inglese Mark Mills. Ma anche la scoperta di talenti stranieri a noi sconosciuti come quello della canadese Susan Musgrave, la poetessa dei banditi, affascinata dal crimine nella professione come nella vita, in lotta contro l’orrore della pena di morte. Tanti sono i nomi e i ricordi, e a citarne solo alcuni sembra di fare un torto agli altri. Al cinema quello fu l’anno di David Cronenberg con A History of Violence e di Viggo Mortensen, killer spietato che non può redimersi, perché il passato, quando è criminale, si vendica sempre.
Il 2004 è segnato invece dalla trilogia di Hong Kong Infernal Affairs, che ha ispirato Scorsese per The Departed, dal mélo noir animato Tokyo Godfathers del giapponese Satoshi Kon, da Spartan di David Mamet, da 36 Quai des Orfèvres di Olivier Marchal, con Depardieu, Auteil e la nostra Golino. Ma soprattutto, dal pilota della serie tv che sarebbe diventata un caso mondiale, Lost di J.J.Abrams. Dopo tanti americani, finalmente un Chandler europeo, che più europeo, insieme colto e dannato di così non si potrebbe: Ian Rankin, che ci fece piegare in due dal ridere quando si produsse nell’imitazione, in purissimo scozzese, di Sean Connery. Vicino di casa della Rowling, i suoi libri erano all’epoca tra i più venduti in Inghilterra dopo quelli di Harry Potter.
Da un’enclave linguistica a un’altra con lo sbarco dei siciliani noir a Courmayeur. Capitanata da Gaetano Savatteri, la “meglio gioventù” dei giallisti isolani portò una ventata di allegria ma anche di impegno nei dibattiti del festival. Molto cinema italiano, dall’Ispettore Coliandro dei Manetti Bros a Quo Vadis Baby? di Salvatores, fino all’insolito omaggio al regista Davide Ferrario, poeta degli sconfitti, cineasta noir suo malgrado. Ma il vero “evento” dell’annata fu la nascita del MiniNoir, un piccolo gioiello poi diretto da Ilaria Avanzi, che fece i suoi primi, timidi passi con lo slogan “Paure da ridere” che fotografa bene lo spirito di quest’appuntamento per i più giovani diventato per anni imperdibile, dove film, libri e computer grafica – grazie agli allievi dello IED di Milano e alla sua Preside, Rossella Bertolazzi, che animavano un geniale laboratorio creativo – si mescolavano alla voglia di crescere e di conoscere dei bambini e ragazzi che lo frequentavano.
Nel 2003 ci lasciava, a pochi mesi dal Festival, il nostro presidente OdB, ed è pensando a lui che ideammo un omaggio speciale a Stan Lee (il creatore dei fumetti della Marvel). Il mitico Oreste del Buono era stato lo scopritore italiano di Snnopy sulle pagine di Linus e per questo li troviamo idealmente insieme sul manifesto dell’anno che fu una realizzazione eccezionale. Nel nome di ObD trovammo la complicità di Sergio Bonelli che fece appositamente disegnare di suoi autori tutti i grandi personaggi del mystery in 9 quadri d’autore che riassumono le passioni del nostro amatissimo presidente a cui, già prima, si deve la nascita del Gran Giallo Cattolica (sulla costiera adriatica negli anni ’70 in coppia con Alberto Tedeschi) e poi del MystFest da cui Giorgio Gosetti ed io abbiamo preso le mosse. Il Premio Chandler del 2003 era l’autore de I sei giorni del condor, James Grady, a cui a dire il vero rubò ampiamente la scena un astro nascente della scrittura noir americana, uno che non ha paura di raccontare che «Elvis è un’icona americana che ha fatto una fine ingloriosa, dicono che sia morto sulla tazza del cesso. Allora nel mio libro io invento che si faccia sostituire da un sosia; poi cade col suo pullman in un torrente, si rompe una gamba e infine fa anche una lotta con una mummia; volevo restituirgli dignità». E questo è Joe R. Lansdale, re del drive-in, scrittore texano diventato in seguito figura di culto, per la prima volta in Italia a Courmayeur. Ad accoglierlo c’era un altro texano, Christopher Cook, medico, sindacalista, lavoratore precario, transfuga a Praga, autore del violento Robbers; e poi due scrittrici inglesi con idee opposte sulla scrittura di genere: Stella Duffy, proletaria e trasgressiva, contro Patricia Duncker, studiosa di letteratura colta e raffinata. Esilarante la battuta del nostro amato e oggi compianto Andrea Pinketts nell’incontro con quest’ultima: «Visto che le piacciono le persone mentalmente disturbate, credo che io e lei stiamo per inaugurare una bella amicizia». È una delle mille battute folgoranti che sono risuonate nella sala del Royal che ogni anno a dicembre faceva da studio alla trasmissione radiofonica di Luca Crovi “Tutti i colori del giallo”, e che quell’anno realizzò una mitica puntata notturna di autentica jam session con tutti gli scrittori presenti, da Sandrone Dazieri, Carlo Lucarelli e Giancarlo De Cataldo che aveva vinto il Premio Scerbanenco con il suo fortunato Romanzo Criminale, alle special guest star Samuele Bersani e Giorgio Gherarducci della Gialappa’s.
Si è parlato molto francese al Noir 2002, nella scrittura come al cinema, con gli accenti del genio ribaldo di Patrick Manchette, oggetto di un ampio omaggio, e con la cinepresa nervosa di Lucas Belvaux, regista belga che a Courmayeur presentò la sua intensa Trilogie. Il catalogo di quell’anno è quasi tutto “preso” da Manchette, scrittore, traduttore, critico cinematografico e letterario, sceneggiatore, intellettuale, teorico erudito del polar, da lui definito “la grande letteratura morale della nostra epoca”. Sulla stessa onda, anche se dall’altra parte dell’Oceano, lo scrittore Robert Stone fa parte del nutrito gruppetto di autori che facemmo conoscere a Courmayeur; tenebroso come Conrad, cinico come Vonnegut, Stone ha attraversato gli Stati Uniti nel 1964 insieme a Kerouac, Ginsberg e Cassidy in quella che fu una sorta di Odissea della Beat Generation. Ma il colpo grosso del festival, ancora una volta è il suo Premio Chandler: toccò allo scrittore best seller da milioni di copie, ex avvocato e ancora devoto alla causa dei giovani difficili che allena alla vita attraverso il baseball, affascinante, generoso. Sto parlando di John Grisham che, sapendo di dover ricevere un premio intitolato a Chandler, per un mese si era esercitato a pronunciare il suo discorso di ringraziamento in italiano: lo recitò a memoria, senza sbagliare nemmeno un accento, durante la premiazione. Al cinema, programma da ricordare anche quell’anno: da Unfaithful di Adrian Lyne, con Richard Gere e Diane Lane, al super successo The Ring di Gore Verbinski, al profetico Oligarch di Pavel Lounguine e il Good Thief di Neil Jordan, per chiudere con Joaquin Phoenix soldato-spacciatore in Buffalo Soldiers. Per contro, il pubblico del Palanoir non riuscì ad entrare tutto quanto all’anteprima del film più atteso di quel Natale: La leggenda di Al, John e Jack dei mitici Aldo Giovanni & Giacomo.
L’aver programmato la prima retrospettiva al mondo di film noir iraniani e insieme la venuta di John le Carré come Premio Chandler per il fatidico 2001, l’anno dell’attacco alle Torri Gemelle, è frutto del fiuto o è stata solo “fortuna”? Noi facemmo ricorso a due numi della cultura come Ryszard Kapuścinski, che rifletteva su quanto accaduto solo pochi mesi prima in un’intervista pubblicata in catalogo, e Le Carré appunto, in carne ed ossa a Courmayeur. L’ex spia al servizio di Sua Maestà, il re dell’intrigo, il profondo conoscitore degli abissi dell’animo umano, con i suoi modi gentili ma fermi, il suo sguardo azzurrissimo e penetrante, resta credo per tutti coloro che quell’anno furono al festival, uno degli incontri che cambiano la vita. Potrebbe bastare, a pensarci bene, anche se il signor David John Moore Cornwell (tenace guardiano della sua privacy e giunto in auto da Ginevra come una vera spia sotto copertura) si rivelò al pubblico come il mitico Le Carré unicamente per amicizia con Irene Bignardi che lo convinse con tenace affetto a sbarcare da noi. Irene, come Giovanni Cesareo, Vittorio Spinazzola, Giorgio Galli, Gianni Canova, Felice Laudadio, Callisto Cosulich, Raffaele Crovi, Claudio G. Fava, Lia Volpatti, Gianfranco Orsi, è stata fondamentale per la riuscita e crescita del nostro Festival. Alcuni di loro non ci sono più e li ricordo qui con l’affetto un po’pudico di chi li guardava come mostri sacri e poi brindava con loro a notte alta. Irene per fortuna continua ad avere un posto d’onore nel nostro piccolo-grande pantheon e per quell’incursione di Le Carrè tra le nevi fu davvero fondamentale. Quell’anno fu uno di quelli magici che si annunciano con un autentico “temporale”: Eddy Bunker. Mille volte morto e rinato, l’anima de Le Iene tarantiniane, una vita degna di un romanzo russo, una faccia su cui ombra e luce erano in eterno conflitto, ci ha regalato la sua disperata spensieratezza, la sua profonda follia, la sua tenerezza per gli altri, chiunque essi fossero. Avrei dato non so che cosa per assistere all’incontro tra lui, brutto sporco & cattivo assurto alla fama, e la perfetta wasp americana “collezionista di ossa” Kathy Reichs. Non si incontrarono purtroppo, e lei venne al festival pensando di essere stata invitata a una convention letteraria di quelle che si organizzano in America, dove tutto funziona come un orologio e tutti sono programmati fin nel minuto secondo. Immaginatevi lo sconcerto quando le dicemmo che era libera di fare quello che voleva! Dopo la prima grolla, lo sconcerto si tramutò in entusiasmo, e alla fine della serata, al Caffè della Posta erano le sue le barzellette più piccanti… Toccante invece fu l’emozionante incontro con il pubblico a cui la Reichs raccontò il suo terribile lavoro di antropologa forense nella “discarica” umana di Ground Zero, all’indomani dell’11 settembre. Christopher Dickey, Yasmina Khadra, Alicja Giménez-Bartlett, Elvira Dones furono gli scrittori di quell’anno mentre tra le cose di cinema, oltre al sempre intrigante Spy Game di Tony Scott, con Robert Redford e Brad Pitt “padre e figlio” nella famiglia più sporca d’America, la CIA, va segnalato un allora ancora sconosciuto Erik Gandini, il documentarista poi assurto a notorietà per Videocracy, che portò al Noir un bel film sul “traditore” di Che Guevara, Ciro Bustos
L’ingresso nel Terzo Millennio l’abbiamo scaramanticamente affidato alla saggezza di Snoopy, che campeggiava sul nostro manifesto 2000 con la sua aria sorniona, quasi a dire: “Non mi fregate, gli indizi ci sono, risolverò certamente il caso”! Le inquietudini millenarie aguzzano l’ingegno…
E allora chi meglio di M. Night Shyamalan e i fantastici antagonisti Bruce Willis e Samuel L. Jackson in Unbreakable per aprire le porte dell’ignoto? Magari con un briciolo di humor nero, come quello di Nurse Betty, di Neil LaBute, entrambi anteprime a Courmayeur. Un ricordo particolare è legato allo scrittore francese Jean-Christophe Grangé, che con i suoi Fiumi di porpora aveva conquistato non solo i lettori ma anche il cinema (Mathieu Kassowitz). Venne da noi sfoggiando la tipica sicumera dei francesi, ma si sciolse subito, emozionato all’idea di cenare insieme al suo idolo Dario Argento, cui intanto avevamo dedicato la nostra sala cinematografica. Ma il sorriso più bello l’avemmo dallo scrittore Petros Markaris, grande traduttore di Goethe prestato ai gialli, per la prima volta in un festival italiano, mentre l’oscar della seduzione andò senza dubbio ad Abbas Kiarostami, impenetrabile e affascinante presidente della giuria. L’inchiesta era il tema dell’anno, e l’amico e giornalista del TG5 Gaetano Savatteri (che sarebbe diventato in futuro uno scrittore di successo) ci aiutò a mettere in piedi e condusse uno dei più bei convegni della nostra carriera, che vide discutere giornalisti del calibro di Carlo Bonini, Luca Telese, Gian Antonio Stella con sceneggiatori come Andrea Purgatori, su come giornalismo e finzione possano e debbano far luce sulla nostra complicata realtà.
Alle soglie del secondo Millennio, non potevamo non occuparci di Mutazioni. E dunque questo è il tema dell’edizione 1999, segnata dalla scomparsa di Stanley Kubrick e dal centenario della nascita di Alfred Hitchcock. I due eventi ci diedero la fortunata occasione di scoprire l’umanità di Brian Aldiss, lo scrittore britannico il cui racconto aveva ispirato il primo progetto kubrickiano di A.I. (Intelligenza Artificiale), film poi realizzato da Spielberg, e di incontrare una persona straordinaria, oltre che grande protagonista hollywoodiano come Farley Granger, leggendario interprete degli hitchcockiani Stranger on A Train e The Rope. Granger, che si presentava come un principe del teatro, si confermò un uomo di raffinata cultura e di grande apertura mentale, affascinante in quello scorcio di secolo quanto lo era stato da giovane.
Il racconto di Aldiss, inedito per l’Italia, lo pubblicammo in catalogo, e in occasione del convegno sul tema delle Mutazioni, avemmo anche l’onore di chiacchierare in video-conferenza con il cyber scrittore William Gibson, un’altra leggenda da appuntare sul nostro personale medagliere.
A Granger conferimmo invece uno “Speciale Chandler” nel segno di Hitch.
Se furono folgoranti le due presenze appena citate, furono altrettanto memorabili quelle del disegnatore satirico americano Bill Plympton, e del regista giapponese Takashi Miike, a cui Noir in Festival dedicò la prima retrospettiva europea mai realizzata, e infine degli scrittori sudamericani. Memorabili anche alcuni dei film presentati: dal successo poi premiato con l’Oscar di American Beauty, di Sam Mendes, al Collezionista di ossa di Phillip Noyce, dal Viaggio di Felicia di Atom Egoyan, a The Element of Crime di Lars Von Trier e il bellissimo Elephant, in omaggio al regista britannico Alan Clarke che aveva scoperto talenti come Tim Roth e Gary Oldman.
Del 1998 quello che si ricorda di più è che abbiamo fatto evadere dei detenuti da San Vittore! Campo corto è il titolo del primo cortometraggio mai realizzato interamente da un gruppo di carcerati; nasceva da un’idea di Gerardo Guerriero e Giovanni Cesareo, il festival lo produsse insieme alla Rai e lo mostrammo alla presenza di due detenuti-registi, Alejandro Carrino e Marcelo Nieto. C’era una gran folla di studenti al Centro Congressi quella mattina, a sentir parlare i “galeotti” venuti in Valle con un permesso speciale, e la scorta dei poliziotti si trasformò ben presto in un servizio di body-guard come per i divi, tante le persone che si accalcavano per un autografo attorno ai due insoliti registi. C’era Marcelo Nieto (ex spacciatore e omicida) che raccontava il suo cambiamento ai ragazzi che lo ascoltavano, muti. Quello era l’anno dei “Confini del male”, come intitolammo gli incontri che annoverarono anche uno straziante ricordo di Ilda Bocassini su Falcone, in occasione della presentazione del libro sulla strage di Capaci scritto a quattro mani da Gaetano Savatteri e Giovanni Bianconi. Così come indimenticabile fu la tenuta da sci indossata da Mickey Spillane nel collegamento con noi in video-conferenza dal North Carolina, in occasione del conferimento del Premio Chandler. Ci siamo fatti delle gran risate a vederlo conciato così, eppure lui è stato forse il più “cattivo” degli scrittori di hard boiled, il creatore del detective politicamente scorretto Mike Hammer, un duro con un gran senso dell’umorismo. Che forse era un po’ il segno di quell’annata con gli scrittori spagnoli capitanati dallo speciale Chandler assegnato ad Arturo Perez-Reverte, mentre una certo abbozzo di sorriso si ritrova nel concorso, dal francese Le Poulpe al Simple Plain di Sam Raimi al Gods and Monsters di Bill Condon al demenziale Bride of Chucky di Ronnie Yu. Ma poi un inatteso Tony Scott ci riportò la serietà della politica col suo Enemy of the State, in compagnia di Will Smith, Gene Hackman e John Voight.
Crescere significa cambiare, e nel 1997 il cambiamento avvenne soprattutto nella composizione dell’organigramma del festival. A Giorgio Gosetti si affiancò un “gruppo direttivo” tutto femminile: oltre alla sottoscritta, Emanuela Cascia e Teresa Cavina (che tre anni dopo ci avrebbe lasciato per proseguire la sua bella carriera festivaliera all’estero pur rimanendo ancora oggi legata al festival come advisor internazionale). Dall’epoca un po’eroica dello “sbarco” alle pendici del Monte Bianco anche a Courmayeur molte cose erano cambiate ma i due “dioscuri” senza i quali il festival non sarebbe mai potuto esistere nella Vallée non ci hanno mai abbandonati. Così qui ci piace dire grazie, una volta di più, al visionario Albert Tamietto (sindaco nel 1993) e a Carlo Canepa (allora direttore dell’azienda di promozione turistica). Erano e sono due persone eccezionali che per primi compresero come cultura, territorio e sviluppo turistico potessero andare di pari passo senza piegare mai la ricerca culturale alla banalità e al glamour senza significato.
Il Premio Scerbanenco andò fuori delle sue “regole” e finì a un irregolare di professione, Alan D. Altieri, ovvero il compianto Sergio Altieri che sarebbe poi diventato un caro amico del festival, tornandoci in vesti diverse, tra cui anche quella di responsabile del Premio Alberto Tedeschi Giallo Mondadori per l’inedito. Sono prestigiose le presenze a Courmayeur con l’omaggio a William Friedkin (come dimenticare i suoi racconti davanti al caminetto dell’hotel di un grande amico come Leo Garin) e le anteprime di L’avvocato del diavolo, di Taylor Hackford, ospite l’interprete Charlize Theron, e di Starship Troopers ospiti il regista Paul Verhoeven e l’interprete Casper Van Diem, e infine di Alien IV, con Sigourney Weaver. Della Theron non potrò mai scordare lo sguardo smarrito da ragazzina che in montagna venne accompagnata dai genitori. Era già di una bellezza abbagliante, ma per gli italiani aveva fatto soltanto la pubblicità del Martini e non era nulla di più che una maliziosa gonna che si sfilacciava. Quando la rividi molti anni dopo, nel 2008 a Venezia, lei era ormai una dea del cinema, e stringendole la mano citai Courmayeur: incredibile ma vero, si ricordò!
Ma non c’erano solo future regine quell’anno a Courmayeur, c’era anche un grande re dell’immagine, pur se solo attraverso le sue fotografie: Weegee, la cui prima esposizione a New York nel 1941 si intitolò “Murder Is My Business”, mentre il suo primo libro nel ’45 Naked City. Di William Friedkin abbiamo detto, ma non che si arrabbiò tantissimo perché durante un’intervista un giornalista diede del fascista al suo amico Paul Verhoeven, e ci volle tutta la pazienza di Dario Argento per calmare gli animi. Intanto sullo schermo si alternavano i film di Paul Anderson, David Fincher (di nuovo da noi con The Game, con Michael Douglas), Takashi Miike, Andrew Niccol (con lo strabiliante Gattaca, con Uma Thurman e Ethan Hawke). Forse però il ’97 fu l’anno che ricorderemo per lo stratosferico conto al bar del Royal che l’insuperabile James Crumley, sanguigno Premio Chandler dell’anno, saldò alla partenza. Che scrittore accidenti, che uomo gigantesco! Se lo guardavi negli occhi potevi vedere un reduce dal Vietnam aggirarsi tra le colline di Little Big Horn… E che dire della Giuria, con Christopher Lee Presidente e Maria Grazia Cucinotta, Gianni Nunnari, Jimmy Sangster, Peter Weller? Che forse si saranno divertiti a guardare in anteprima un pezzo di storia del cinema caduto tra i monti della Val Ferret all’inizio degli anni Cinquanta, con il progetto del Guglielmo Tell che Errol Flynn cominciò e mai terminò di girare proprio a Courmayeur. Ciò che rimase di quel girato l’abbiamo rivisto insieme ai testimoni oculari di quell’evento e al suo grande direttore della fotografia, Jack Cardiff, ospite d’onore di una serata indimenticabile.
Anno folle il 1996. Avevamo deciso di dedicarlo a Philip K. Dick e di esplorare con lui il mondo della fantascienza che prende in prestito dal noir le sue inquietanti atmosfere. Le stesse che si ritrovano nel manifesto, ancora una volta firmato da Schifano che ce lo volle regalare con la sua straordinaria generosità. Non c’è stato nei tempi recenti un profeta più visionario e più straordinariamente veritiero di Dick, e quell’edizione del Noir ne conserva la tracce in catalogo: un viaggio allucinante e affascinante nella disperazione del nostro tempo attraverso mondi e storie alieni. Lang, Godard, Cronenberg, Tavernier, Besson, Carpenter sullo schermo del nostro cinema di Courmayeur e Chris Carter, il creatore di X-Files, collegato con noi dalla lontana Toronto. Compagno d’eccezione nella nostra riscoperta di Philip K.Dick, Gabriele Salvatores, che da quella volta si può dire non ci abbia più lasciato, e ogni anno viene a trovarci al festival, portandoci ora un film, ora uno spettacolo, ora semplicemente il suo sorriso. Allora ci fece vedere in anteprima le prime immagini del suo nuovissimo film, Nirvana.
Quell’anno il Premio Mystery per la letteratura prende il nome di Giorgio Scerbanenco, grazie all’amicizia della figlia Cecilia e della vedova del grande scrittore milanese, giustamente riconosciuto come il fondatore in Italia del noir. Ed è significativo che il primo Scerbanenco sia andato a un libro di Carlo Lucarelli, un altro che non ci avrebbe più lasciato in futuro.
Che dire poi del Premio Chandler che andò al mitico Ed McBain? Forse che di lui ricordo la figura slanciata e un po’ fané, da prestante attempato signore appena uscito dal suo circolo del golf. E che però, a guardarlo attentamente, potevi sorprendere a trangugiare il whisky come un gangster.
Nel 1995 abbiamo lanciato Seven di David Fincher, e in una edizione tutta dedicata al nostro padre putativo Dario Argento (della figlia Asia il disegno del manifesto), ricordo con particolare affetto l’incontro con Lady P.D.James, che un nostro fotografo volle riprendere mentre si aggirava per i corridoi dell’Hotel Royal con in mano un coltellaccio da cucina. Lei fu estremamente soddisfatta del risultato e al festival si divertì moltissimo. Bella la retrospettiva del poliziesco italiano anni Cinquanta e rinnovato il successo della serie Fallen Angels, con gli episodi di Peter Bogdanovich, Jim McBride, Kiefer Sutherland, Agnieszka Holland e John Dahl tra gli altri. La giuria era composta dal grande Donald Westlake, che la presiedeva, e da Maria De Medeiros, Remo Girone, Piers Handling, Laura Morante. Premiarono il film spagnolo Justino di La Cuadrilla, e gli attori Oleg Jankowskij per il film di Anthony Waller Mute Witness e Rose Jackson in Dead Presidents di Allen & Albert Hughes.
Del Noir del ’94 ritrovo il manifesto di Roland Topor e la bella retrospettiva sul cinema poliziesco italiano del dopoguerra, curata da Orio Caldiron. Fu la prima volta che qualcuno osava guardare al passato del nostro cinema per scoprirvi una traccia “nera” che attraversa tutte le epoche, da Harlem di Carmine Gallone, un gangster movie pugilistico in piena regola, girato a Cinecittà nel ’43 a Ossessione di Visconti, da Cronaca di un amore di Antonioni ai capolavori di Rosi, Petri, Damiani, Vancini fino all’inatteso Bianca di Nanni Moretti. Nella mia testa suonano ancora le note di un evento davvero insolito dedicato ai “Suoni del Noir”, in cui il jazz impazzava; e poi registi come Claire Denis, Danny Boyle, Ole Bornedal, Imanol Uribe, John Carpenter e Wes Craven. Il festival è uno strano luogo di affetti e incontri. Da quell’anno cominciò a frequentarci anche un amico nuovo, il geniale ideatore televisivo e talent scout Bruno Voglino che, negli anni, ci avrebbe regalato una ventata di ironica follia arruolando tra i nostri personaggi volti popolari come Fabio De Luigi, Neri Marcorè, Luciana Litizzetto, Bruno Gambarotta. Ma la soddisfazione di premiare con il Chandler due giganti della nostra scrittura come Carlo Fruttero e Franco Lucentini (Fruttero salì apposta con molta ritrosia fin sotto il Monte Bianco) rimarrà come il ricordo più forte di quello strano anno, per me quasi soltanto spettatrice, perché in estate era nato mio figlio.
Il 1993 è l’anno eroico del Grande Cambiamento, quello che segna il confine con l’età giovane lasciata alle spalle e la nuova maturità del festival a Courmayeur. Come spesso succede nei grandi cambiamenti, siamo ripartiti da zero anzi, da sotto-zero! Giorgio ed io eravamo stati ad Avoriaz, e di sicuro quel festival – forse il più importante dedicato al mystery e al fantasy in Europa – ci tornò in mente quando accettammo la sfida del Monte Bianco.
Ci accolse il gelo della montagna, un pubblico rarefatto come la sua aria, e un cinema degli anni Cinquanta che forse sarebbe piaciuto molto a Tarantino, ma che ci faceva disperare per la sua povertà di mezzi tecnici. Con molta diplomazia e una buona dose di pazienza, riuscimmo comunque a far vedere decentemente blockbuster come Robin Hood, di Mel Brooks, o film d’azione come Romeo Is Bleeding di Peter Medak, che ci fece innamorare di Gary Oldman. Titoli importanti, come l’anteprima assoluta della serie tv Fallen Angels, prodotta da Sydney Pollack, di cui presentammo gli episodi firmati da Alfonso Cuaron, Steven Soderbergh, Tom Cruise e Tom Hanks in veste di registi. Quell’anno, oltre a un grande e malinconico Osvaldo Soriano (Premio Chandler) che si aggirava per le nevi di Courmayeur insieme allo sceneggiatore Giorgio Arlorio, c’erano molti autori famosi e pure il nostro amatissimo Gillo Pontecorvo alla testa della Giuria, e nessuno di noi scorderà mai il racconto dell’ultima decisiva seduta di giuria, fatto dai compagni d’avventura Gian Mario Feletti, David Robinson, Jerzy Skolimowski, Adrian Wootton, che si videro depositare sul tavolo dal regista di Queimada una scintillante pistola nera, accompagnata dalle parole: “Bene, ora possiamo cominciare la seduta”! Tra lo sconcerto di tutti, rise soltanto l’ex pugile Skolimowski…
Ballammo a Viareggio soltanto un’altra estate…, sì perché eravamo al mare, al caldo di fine giugno, ma assediati da mille manifestazioni estive… Eppure, in esilio sulla costa tirrenica, abbiamo confezionato nel 1992, un’altra edizione da ricordare. All’insegna di Hugo Pratt che ci regalò un seducente Corto Maltese in impermeabile da detective per il manifesto, e del tema del “Vero e Falso: riscrivere la Storia”, su cui abbiamo chiamato grandi esperti a discutere. I misteri della storia recente, assassinio di JFK compreso, hanno fatto da sfondo alla prima volta per il pubblico italiano di uno straordinario documentarista americano, Emile De Antonio, mentre il presidente della Giuria cinema era niente meno che il grande Jules Dassin. Michael Curtiz era invece con noi grazie a una scintillante retrospettiva, così come il mistero italiano di Orson Welles venne indagato dagli amici Gianfranco Giagni, Ciro Giorgini e Maia Borelli nel bellissimo documentario Rosabella poi distribuito con il nostro sostegno produttivo. I registi del passato e quelli contemporanei: la selezione ufficiale ’92 è piena di nomi significativi. Da Peter Medak a Mark Peploe, da Mike Figgis a Nicholas Roeg, da Steven Soderbergh con il suo Kafka a Lizzie Borden e Kon Ichikawa.
Ma l’avvenimento più straordinario di quell’anno fu la comparsa sul pianeta Noir di quell’alieno di talento che è Quentin Tarantino. Dopo la visione de Le iene al festival di Cannes, che ci lasciò insonni a progettare di averlo in anteprima, mi misi a caccia di Tarantino per mezza Europa, dove il giovane regista stava passando l’estate dopo la Costa Azzurra, e alla fine riuscii miracolosamente ad averlo al telefono da Amsterdam. A convincerlo a venire bastarono la presenza di Dassin, la retrospettiva di Curtiz e gli incontri sul giallo italiano. Arrivò a Viareggio con il suo camicione a quadri da boscaiolo e il suo mento alla Totò, braccia e gambe troppo lunghe. Sempre infilato al cinema, ne usciva soltanto per venire nei nostri uffici e dirci, ridendo forte: “Thank you, thank you, thank you!!”. Era felice come un bambino di stare in mezzo a film che adorava, non era ancora nessuno, davvero, ma per noi era Shakespeare con una cinepresa in mano, e personalmente ricordo la sua presenza e l’anteprima italiana del suo capolavoro come una delle più grandi soddisfazioni del mio lavoro.
“Ma perché Noir in? Che c’entra con il giallo?” queste domande ce le sentivamo fare continuamente nel 1991, quando mi venne in mente (sì Vostro Onore, la colpevole sono proprio io) di proporre un nuovo nome per il festival che era partito da Cattolica alcuni anni prima. Voleva essere un mettere “in” mostra un genere; voleva sollevare il velo un po’ pudico del giallo e del mistero per scoprire il vero buco nero che nasconde i nostri mali contemporanei; voleva anche affermare una suggestione più europea, forse più elegante, o semplicemente consegnarsi senza ipocrisie al colore dell’angoscia.
A scorrere il libro dei ricordi, che poi nel nostro caso è proprio una serie di libri, ovvero di cataloghi, prende quasi una vertigine. Quanti nomi importanti, quante persone catturate dalla rete della nostra ostinata passione per “il lato oscuro delle cose”, che ci hanno regalato le loro passioni, la saggezza, la follia, spesso il buonumore e, in tutti i casi, la loro esperienza umana. Come fare ad eguagliare quel primo 1991 del Noir a Viareggio che ormai resterà mitico nella memoria di tutti?
Krzysztof Kieślowski era presidente della giuria cinema, Oreste del Buono presidente di quella letteraria: che coppia, il maestro polacco del cinema che sonda l’animo umano e ama Hitchcock, col maestro della letteratura sempre curioso di verità insolite. E poi il manifesto, disegnato da quell’anima nera di artista dal cuore d’oro che è stato Mario Schifano; i registi in gara come Eric Rochant, Walter Salles, Jeffrey Reiner, Gaspar Noé; gli attori che hanno sfilato sullo schermo di Viareggio a cominciare da Dennis Hopper, Barbara Hershey e Ed Harris nel film vincitore, Il cuore nero di Paris Trout, di Stephen Gyllenhaal. Ma anche Ellen Mirren, Peter Coyote, Tchecky Karyo, John Hurt, Yvan Attal, Kristin Scott-Thomas, Charlotte Gainsbourg, Victoria Abril, Maria Barranco, Billy Zane, Jennifer Beals, Roger Hanin che faceva Navarro. E ancora Matt Dillon, Sean Young e Max Von Sydow, Bridget Fonda, Christian Slater, Steve Buscemi, Julianne Moore. L’omaggio a Frederick Wiseman, allora totalmente sconosciuto in Italia: il suo incontro con Kieślowski sul documentario rimarrà scolpito nella memoria di chi ebbe la fortuna di assistervi; il ricordo di Graham Greene, un fantastico incontro sul Processo nella chiave del “Delitto e castigo” di Dostoevskij, l’omaggio a Hitchcock e il noir di Vichy in un colpo solo; e poi il grande maestro dello spionaggio Frederick Forsyth, venuto a prendersi il Raymond Chandler Award, accanto a Topolino detective, in un concerto di alto e basso quasi rabelaisiano.