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Da Atene a Vigata. Il filo sottile della compassione |
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Andrea Camilleri |
Petros Markaris |
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di Giorgio Gosetti |
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Dodici anni li separano, un mare li unisce. Sarebbe facile dire che hanno in comune la cultura della Magna Grecia, ma in verita se Andrea Camilleri è di Porto Empedocle, Petros Markaris è nativo di Istanbul e quindi l’orizzonte dell’Egeo si apre al Mediterraneo, dalle rive del Bosforo alla piana di Agrigento. Insieme a Vasquez Montalban compongono l’ideale famiglia del Giallo Mediterraneo che negli anni Settanta (quando entrò in scena Pepe Carvalho) sembrava un’eresia; che negli anni Novanta (quando Salvo Montalbano divenne un commissario di successo) parve un’anomalia; che negli anni Duemila (presa di servizio per Kostas Charitos) ha avuto il crisma del fenomeno e ha visto la sua natura allargarsi a macchia d’olio. Ma qui non si tratta di accostare tanto due modi di scrivere il giallo e colorarlo di noir; non si vuole sottolineare somiglianze nella luce aspra e radente che illumina il Pireo e la Sicilia meno nota. E tantomeno si vuole costruire un albero genealogico di famiglia che - per diretta ammissione dei due interessati - risale dritto dritto al Commissario Maigret e allo stile inconfondibile di Georges Simenon. Qui sono di fronte due persone che - idealmente - il nostro Festival collega direttamente per la prima volta, premiati insieme per una comune sensibilita espressiva, civile, umana; per una storia parallela, idee condivise, prese di posizione egualmente esplicite sul mondo in cui vivono.
La prima cosa che colpisce nelle somiglianze e proprio il coraggio di idee tradotte in esperienze di vita che spesso, sul filo degli anni, hanno messo nei guai sia Camilleri che Markaris: al primo costano, agli esordi, la bocciatura a un concorso in Rai; al secondo anni di isolamento durante la dittatura dei Colonnelli. La via del romanzo, la simpatia contagiosa dei loro personaggi, la scelta di mettere in piazza non la semplice brutalità del crimine quanto piuttosto la fragilità di carnefici e vittime e il peso della società che li schiaccia, diventano le armi migliori per una denuncia sociale che è presa di posizione politica.
Camilleri cresce all’ombra di una scuola inimitabile, un modello da cui sa prendere le distanze con intelligenza e arguzia perché scrivere della Sicilia dopo Sciascia, durante Sciascia, sembra - a tutta prima - un’impresa impossibile. Che invece riesce grazie all’invenzione di uno stile che è solo e inimitabilmente suo e che gli permette di frugare nei cassetti della Storia e nei segreti degli individui con la stessa rotonda arguzia, una complicita colloquiale che fa subito del lettore l’interlocutore primo e appassionato dei suoi romanzi. Non è difficile la scrittura di Camilleri, ma ogni volta richiede una sorta di chiave d’accesso, una dedizione alla pagina che diventa comunanza di idee e di scelte.
Markaris ha scelto a lungo la via del cinema per esprimersi e ha trovato in Theo Angelopoulos l’interlocutore diretto con cui confrontarsi alla ricerca di una propria identità espressiva. Non è un caso che la prima sceneggiatura da lui firmata sia un vero e proprio noir politico, una rivisitazione storica che starebbe bene anche nella filmografia di Rosi o Petri o nella bibliografia di Sciascia come I giorni del ’36, diretto nel 1972 da Angelopoulos. Ci vorranno diversi anni perché quella stessa vena si traduca in racconti autonomi che mischiano la Grecia del passato con quella del presente nel nome del disincantato Kostas Charitos. Anche le pagine di Markaris sono accattivanti, piane, apparentemente senza sussulti. Ma il reticolo dei riferimenti, la topografia meticolosa che racchiude ogni spostamento di Charitos chiedono attenzione che è comunanza con il lettore familiare ai luoghi e codice espressivo con chi scopre insieme allo scrittore la multiforme scena ateniese.
Mentre le avventure di Montalbano tracciano il profilo, un romanzo dopo l’altro, di una Sicilia quasi gattopardesca, sempre uguale a sé e sempre inconoscibile, la storie di Charitos assomigliano a un termometro della febbre greca dei nostri giorni. Pagina dopo pagina vi si ritrovano echi d’attualità e squarci di indignazione civile che con astuzia l’autore mette in bocca al lettore prima ancora che ai suoi personaggi. Ma in entrambi vige la dittatura della verità e dell’onestà narrativa: sicché Camilleri ci dice molto più di quanto non sembri sul nostro tempo, spesso ricorrendo alla memoria storica con le sue incursioni fuori dal mondo di Montalbano; Markaris invece non si lascia mai intrappolare nella cronaca, complice il distacco e l’ironia che usa a piene mani.
Ecco, forse proprio l’ironia e una umana “cum-passione” per i reciproci protagonisti accomuna meglio d’ogni altro tratto la scrittura di questi due grandi e i caratteri dei loro personaggi simbolo. Sono questi elementi che mettono a loro agio il lettore, lo sottraggono alla sfida della corsa a ostacoli verso la soluzione, lo inducono a guardarsi intorno insieme al narratore, lo inseriscono in un microcosmo di volta in volta più vasto che diventa comprensione del mondo. Si potrebbe perfino dire che - come spesso accade nella vena migliore del noir mediterraneo - la digressione conta e attrae più della trama stessa e l’invito al viaggio diventa un morbido cullarsi, proprio come il ritmo del mare amatissimo da Montalbano, riguardato con quell’attrazione mista a diffidenza che è del greco di terra Charitos. Potremmo prendere a prestito un titolo che accomuna Markaris e Angelopulos dicendo che ciò che cerchiamo nei suoi romanzi (ma anche in quelli del suo “cugino” siciliano) è lo Sguardo di Ulisse: il viaggio è piu importante della meta, lo sguardo è la chiave per decifrare il senso della ricerca, l’eroismo del protagonista sta nella sua fragile quotidianita esposta ai venti della Storia e della debolezza umana. Perché poi il crimine, il delitto, lo sconvolgimento dell’ordine costituito stanno proprio nella paura che ciascuno di noi si porta dentro e che la macchina infernale della società, con le sue storture, le sue brutalita e ingiustizie scatena come istinto di difesa o di rivalsa. Il problema è che né Camilleri né Markaris credono a quest’ordine delle cose che il consesso civile chiama giustizia. Credono nei valori che la innervano, nel principio della legge e del rispetto. Ma sono ribelli e trasgressivi come i loro protagonisti perché assolvere al ruolo che ci si e assunti non vuol dire sposarne la logica sempre e comunque. È la quieta maledizione di chi è “contro” e usa l’arte per guardare oltre e affermare che un “modo” diverso è possibile. Ancora una volta è Ulisse che spiega le vele per andare alla ricerca di un’utopia che sa forse irraggiungibile, ma non per questo meno concreta e importante.
Nell’albero genealogico del genere, Camilleri e Markaris si iscrivono di diritto tra i “cavalieri bianchi”, i cantori nostalgici di un sistema di valori negato dalla rabbia e dalla violenza che la società capitalista genera e coltiva. E non c’è dubbio che entrambi debbano riconoscere a Raymond Chandler questa consonanza poetica che si traduce in apparente disincanto e cela invece un senso romantico e solitario. La differenza sta nella diversa consapevolezza della macchina sociale che si muove intorno. Marlowe usa i modi della civiltà che lo circonda e si sente in realta un diverso, un isolato, un perdente che gode della quotidiana scommessa di ritardare un esito certo. Montalbano e Charitos stanno invece all’interno del sistema della legge; la loro marginalità è interiore, percepiscono il lavoro come un dovere morale per limitare i danni che altri compiono.
Fare il poliziotto è per loro una corvee quotidiana, né l’uno né l’altro hanno l’animo del cane sciolto anche se fanno impazzire i superiori e salvano il posto perché sono comunque più bravi. Immaginarli a cena con Marlowe e Carvalho produce una strana impressione di straniamento.
A parlare di politica, almeno uno si sentirebbe un pesce fuor d’acqua; a parlare di cibo non ne parliamo; Charitos avrebbe qualche difficolta a celare la sua diffidenza per gli stranieri, specie se americani. Ma un punto in comune certo lo troverebbero subito: la curiosità per l’essere umano che porta perfino a derogare - almeno in parte - al proprio codice etico per tendere una mano, pur stando dalla parte della legge, a chi proprio non sa uscire dalla rete d’errori che lo ha portato sulla sponda del crimine. E, al contempo, a essere implacabili cacciatori di chi viola la legge per prepotenza, per arroganza, per crudeltà. Senza paura di pestare i calli al consorzio civile, di rischiare la reputazione e uno stipendio o un contratto.
Guardati da quest’angolazione, i due protagonisti del Raymond Chandler Award 2011 hanno una parentela stretta e potrebbero facilmente trovare legami e affinità con altri protagonisti della scena mediterranea di questi anni, da Alicia Gimenez Bartlett (che adora le digressioni come i nostri eroi) a Gianrico Carofiglio (che ti porta in giro per la sua città meglio di una guida). Ma è nella differenza più evidente che si stabilisce la relazione più stretta: in apparenza Camilleri descrive la provincia e Markaris la città; il primo sente le cicale intorno a casa e il secondo combatte con ingorghi e scappamenti; Montalbano potrebbe essere commissario oggi o trenta anni fa, Charitos vive e racconta il presente storico. E invece si scopre, mettendoli fianco a fianco che sono proprio due facce della stessa medaglia: che la brulicante Atene e la sonnolenta Vigata hanno la stessa lingua e ci rimandano una medesima immagine: un universo di caos in cui l’individuo cerca la logica e si arrende, magari con un sorriso, all’imprevedibilita dell’animo umano. E sceglie da che parte stare.
«Non ci possono essere esenzioni momentanee dalla legge. La legge rappresenta la coscienza, il vivere civile…E sentirsi esonerato - o volersi far esonerare anche solo per un minuto - implica per me il giudizio che tu non appartieni alla società a cui appartengo io». «Non c’e un uomo che maneggi soldi e che non abbia nemici…Qui da noi chi ha dei soldi è di per sé sospetto, e probabilmente li ha rubati. E questo che crede più della metà della gente». Difficile attribuire a prima vista le due frasi all’uno o all’altro dei nostri due scrittori. Ma in coro potrebbero firmare questa: «Non so come sia l’aria che tira quando ministri e capi prendono il loro caffè mattutino. Il mio caffè, fatto con la macchina del caffè espresso, me lo bevo da solo e mi arrabbio parecchio se qualcuno o qualcosa viene a rovinarmi questo primo, e spesso unico, piacere della giornata».
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