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Jim Thompson - Salvato dalla celluloide di Adrian Wootton |
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Jim Thompson |
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Come la maggior parte dei grandi scrittori ‘noir’ americani, Jim Thompson ha lavorato per Hollywood e a Hollywood, in cui molte sue opere sono state adattate per il grande schermo. Ma a differenza di altri suoi colleghi, Thompson ha dimostrato notevole longevità e vitalità tra i filmmakers degli ultimi quaranta anni, soprattutto dopo la sua morte avvenuta nel 1977. La nuova versione cinematografica di The Killer Inside Me di Thompson, firmata da Michael Winterbottom, è l’esempio più recente del fascino che questo scrittore continua a esercitare e prima di interrogarci sui motivi per cui lo scrittore ancora genera una tale ispirazione, è giusto tornare ai suoi inizi, perlomeno in termini cinematografici. A metà degli anni Cinquanta, Jim Thompson aveva già ultimato il suo prolifico periodo ‘pulp’, in cui aveva prodotto un’incredibile quantità di romanzi ‘hard-boiled’ davvero estremi. Quello fu anche il momento da molti considerato come la fine della prima grande generazione della pulp fiction (Chandler era morto, Hammett non scriveva più, Cain aveva cambiato genere). Allo stesso tempo, anche il film noir si stava esaurendo: detective e poliziotti erano ormai approdati alla televisione e il pubblico sembrava interessato ad altro (soprattutto al tema della guerra fredda). Ma fu proprio allora che Thompson strinse amicizia con un esordiente Stanley Kubrick, che apprezzò la violenza realistica e brutale, l’umorismo nero e le verità oscure dei suoi libri. Thompson lavorò sulla sceneggiatura del capolavoro di Kubrick, Rapina a mano armata, un film colmo non solo di deliri McCarthisti ma anche di un ‘realismo’ di stampo documentaristico, con uno stile di ripresa, un’atmosfera e un’attenzione ai dettagli che caratterizzarono anche Anatomia di un omicidio e La città nuda. Qualche anno fa il produttore di Kubrick, James B. Harris, è stato ospite al Noir in Fest, e in questa sede ha condiviso con il pubblico le sue vivide memorie dei tempi in cui frequentava Thompson. Sfortunatamente, nonostante lo scrittore abbia avuto un ruolo importante nella stesura della sceneggiatura del successivo classico di Kubrick, Orizzonti di gloria, e abbia scritto un copione originale a tutt’oggi ancora inedito e mai prodotto, il suo rapporto professionale con l’enigmatico regista non fu dei più idilliaci e naufragò a causa di una controversia sui titoli. Dopo essere stato relegato a un ruolo più che marginale nella sfolgorante carriera cinematografica di Kubrick, a Thompson (così come è accaduto ad altri scrittori noir di quel periodo, fra cui David Goodis) non rimase altro da fare che guadagnarsi da vivere svolgendo lavori più modesti per alcuni programmi televisivi americani, tra la fine degli anni Cinquanta e i gli anni Sessanta, continuando occasionalmente a scrivere romanzi. Negli ultimi dieci anni di una vita sempre più problematica (in cui scriveva poco, beveva troppo e la sua salute vacillava), dopo un ennesimo progetto fallito, stavolta al fianco di Robert Redford, Thompson fu coinvolto nella produzione di The Getaway, il primo adattamento di uno dei suoi romanzi, ad opera di Sam Peckinpah, che ne fece un buon film d’azione, ideale per Steve McQueen; quest’ultimo però non apprezzò il copione originale di Thompson. Il risultato fu che lo scrittore si ritrovò ancora una volta dalla parte sbagliata del business dello spettacolo, e il suo nome fu nuovamente relegato ai margini. Per Thompson sarebbe stato l’ultimo vero lavoro in veste di sceneggiatore ma non l’ultimo contatto con Hollywood. Questo periodo, che risale alla metà degli anni Settanta, vide risorgere l’interesse nel genere ‘hard boiled’ da parte del cinema americano, sia nei confronti degli scrittori classici che dei contemporanei (anche gli studiosi e i critici iniziarono a valutare seriamente il genere e le sue espressioni creative). Di conseguenza emersero una varietà di validi e insoliti adattamenti e omaggi al genere fra cui la versione diretta da Robert Altman di Il lungo addio di Chandler, Gli amici di Eddie Coyle di Peter Yates tratto dal romanzo di George V. Higgins, Organizzazione crimine di John Flynn, adattato da Richard Stark, Chinatown di Roman Polanski e la nostalgica versione di Dick Richard del romanzo di Chandler, Addio mia amata. Richard chiese giustamente all’ormai attempato (e malandato) Thompson di apparire in un ruolo ‘cameo’ nel suo film, per rappresentare simbolicamente un’intera generazione di scrittori, e, ironia della sorte, Thompson ha interpretato un personaggio creato proprio dal suo maggiore rivale. Questo costituì un suo tardivo riconoscimento sul fronte cinematografico. Seguì un mediocre adattamento di The Killer Inside Me, forse il suo libro più inquietante e innovativo, il cui adattamento diretto da Burt Kennedy, fu detestato da Thompson. Sfortunatamente questo fiasco commerciale, stroncato anche dalla critica, ha costituito l’epitaffio meno appropriato di Jim Thompson, che si è spento il 7 aprile 1977 all’età di 71 anni. Dopo qualche anno dalla morte di Jim Thompson, si ha avuto l’impressione che la sua vita e la sua carriera potessero cadere nel dimenticatoio letterario e cinematografico, tuttavia il suo nome è stato salvato da due fattori. Il primo è stato l’amore dei francesi per il noir americano in un periodo in cui svariati registi ormai maturi, appartenenti a una nouvelle vague non più tanto nuova, come Truffaut, Godard, Chabrol e i loro colleghi più giovani, si sono ispirati nuovamente al genere pulp, rivisitandolo; Alain Corneau, primo fra tutti, ha tradotto il romanzo di Thompson, Diavoli di donne, in un film del 1979 dal titolo Il fascino del delitto. In seguito Bertrand Tavernier ha diretto il brillante Colpo di spugna (1981): ambientando il romanzo di Thompson, Pop. 1280, nell’Africa occidentale durante l’era coloniale francese, all’inizio del ventesimo secolo, il regista ha creato un capolavoro che a oggi resta l’unica bella versione cinematografica in lingua straniera del romanzo di Thompson. D’altro canto, l’ultima parte dell’era reaganiana, e cioè la fine degli anni Ottanta e primi anni Novanta, ha visto rinascere, negli Stati Uniti, un genere horror indipendente, spesso ambientato nel degradato sottobosco d’America. Questi film, spesso grossolanamente raggruppati nel genere American Gothic (o neo-noir), e caratterizzati dalla visione nichilista di Jim Thompson, sono in realtà per lo più ispirati a Thompson e non adattati dai suoi libri (come The Hitcher, Near Dark, American Gothic, Blue Steel, Bad Influence - cattive compagnie, Red Rock West), ma hanno il merito di aver incoraggiato alcuni giovani filmmakers a reinterpretare il suo lavoro (che non era popolare e quindi i suoi diritti erano piuttosto economici). Certamente sia la versione dura e totalmente priva di sentimentalismi di Maggie Greenwald di Vita da niente nel 1989 e il raffinato Più tardi al buio di James Foley, dimostravano quanto l’opera di Thompson riflettesse il moderno zeitgeist senza la necessità di alcuna significativa rielaborazione. Ciò trova decisamente conferma nella splendida versione di Rischiose abitudini, del 1993, una produzione composta da un cast di grandi stelle: Martin Scorsese come produttore, l’inglese Stephen Frears alla regia (in quello che è a tutt’oggi ancora il suo migliore film americano) e la scintillante firma del veterano di noir Donald Westlake (noto anche come Richard Stark) che ha scritto il copione. Frears e Westlake la ritengono una collaborazione assolutamente riuscita e Westlake, che mi ha confidato di aver sempre pensato che l’opera di Thompson peccasse di una certa fretta dettata dagli editori del genere pulp, ha conferito al copione quella rifinitezza che manca nel libro. Il copione di Rischiose abitudini, uno dei migliori adattamenti di un romanzo di Thompson, ha rivitalizzato il libro e l’interesse del cinema nei confronti delle opere di questo autore, ponendolo nuovamente sotto i riflettori. Alla fine degli anni Novanta, il nome di Thompson non era ancora svanito del tutto: un suo racconto breve, The Frightening Frammis, fu adattato per una puntata della serie televisiva The Fallen Angels nel 1993; nel 1994 uscì il costoso ma insignificante remake di The Getaway; nel ’95 Hit Me nonché una mediocre versione de L’altra donna; e nel 1997, This World, Then The Fireworks, una piccola ma riuscita versione delle opere meno note di Thompson. Poi, come per magia, il “boom” di Thompson, che segnò la fine di una produzione alquanto occasionale, dando luogo a una pausa di quasi tredici anni. Forse i diritti erano ormai troppo costosi o forse i filmmaker ritenevano che Thompson fosse ormai un autore esaurito, ma la cosa certa è che i film tratti dai libri di Dashiell Hammett, dal contemporaneo James Ellroy o da Elmore Leonard andavano per la maggiore. Fino a quando non è arrivato il regista inglese Michael Winterbottom e il suo socio produttore Andrew Eaton che quest’anno hanno presentato The Killer Inside Me. Curiosamente Winterbottom non aveva mai fatto un thriller prima d’ora; i suoi film sono sempre stati eclettici, sul filo del rasoio delle emozioni e spesso politici, ma mai confinati a un solo genere, quindi quest’ultimo costituisce un vero e proprio punto di svolta nella sua carriera. Ancora più strano è il fatto che il regista si è trovato un po’ per caso ad adattare un libro di Jim Thompson. Questo lo so bene perché in parte ho preso anch’io parte al suo progetto. Michael Winterbottom e Andrew Eaton volevano un’ambientazione inglese, una versione contemporanea del romanzo di Thompson Non sparate sul pianista realizzato dall’americano David Goodis (che intendeva discostarsi il più possibile dall’adattamento classico di Truffaut negli anni Sessanta dal titolo Tirate sul pianista. Ho visto diversi trattamenti, il copione e i dialoghi di questo progetto ma nonostante il lavoro procedeva alacremente, fu abbandonato a causa di problemi relativi ai diritti (venne meno l’accordo fra un attore/produttore francese che deteneva l’opzione, e i filmmaker inglesi). A questo punto Michael Winterbottom ha deciso di realizzare comunque un crime thriller, non solo tratto da un romanzo americano, ma ambientato e girato negli Stati Uniti, in una autentica ambientazione classica noir. Il risultato è The Killer Inside Me, co-scritto da Winterbottom e John Curran, e presentato al Sundance e al Festival di Berlino. Tra le versioni più intense e più fedeli di uno dei romanzi più noti di Thompson (se non il più noto), ad eccezione del fatto che si libera della narrazione in prima persona e delle osservazioni pop-Freudiane che spiegano il motivo per cui il personaggio principale, Deputy Lou Ford, è un maniaco omicida, The Killer Inside Me rende perfettamente il pervertito erotismo, la violenza terribilmente dettagliata, la trama crudelmente fatalista e la black comedy del suo materiale originale. Il film ha diviso la critica, attirando su sé accuse di misantropia, di pornografia, di violenza e di vera e propria misoginia. Il dibattito sul film ha raggiunto il culmine nell’estate del 2010, in occasione della sua uscita in Inghilterra; i giornali, le radio e le televisioni hanno parlato a profusione dei suoi meriti e dei suoi difetti (confesso di essermi schierato fermamente dalla parte dei filmmaker). Sfortunatamente, forse proprio a causa di questa controversia, il film non ha suscitato l’interesse del pubblico e The Killer Inside Me è stato un fiasco nei botteghini inglesi. C’è da augurarsi che The Killer Inside Me non abbia lo stesso destino altrove, compresa l’Italia. Courmayeur sembra il luogo perfetto per presentare questo adattamento particolare, che conferma l’arte sempre flessibile, quasi plastica di Thompson, il cui risvolto postmoderno nonché le motivazioni egoistiche, talvolta psicotiche e totalmente credibili del protagonista, scevre da sentimentalismi e da una morale troppo netta, appare oggi incredibilmente attuale.
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