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L'introduzone di Marcello Fois |
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autore |
Marcello Fois |
Bibliografia selezionata |
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Il primo punto è che ogni volta giuro di non farlo e il secondo è che ogni volta disattendo al mio giuramento. Sto parlando di smettere di trattare la Sardegna come un caso a parte, e, di conseguenza, finire per farlo proprio in virtù di questo diktat. Che la Sardegna sia un’isola lo dice la geografia e che sia piuttosto distante dal Continente anche. Almeno dal punto di vista logistico non ci sono dubbi in merito. Che la Sardegna sia un’isola letterariamente parlando è più difficile da dimostrare. Non perché non ci sia uno specifico sardo nel mercato editoriale attuale, ma perché bisognerebbe stabilire fino a che punto non si tratti piuttosto di un fenomeno eterodiretto. Ma partiamo dal principio: saranno cinque anni circa che nelle librerie italiane ha fatto notare massicciamente la sua presenza un drappello molto agguerrito di autori sardi. Qualcuno ha immediatamente gridato al miracolo; i più politicizzati hanno attribuito questo fenomeno alla crescita di autostima delle patrie lettere, per patrie si intenda sarde, grazie al quadriennio soriano; i più informati hanno indicato come punto di partenza la crescita dell’editoria locale, specialmente l’exploit glocal della casa editrice il Maestrale di Nuoro; altri, più cautamente, l’hanno rubricato come una moda passeggera; altri infine, hanno pensato di storicizzarlo in fieri constatando che quanto oggi è evidente ha covato sotto la cenere per qualche decennio. Tutte posizioni accettabili, che spaziando dalla felicità all’invidia, dalla seriosità al sarcasmo, evidenziano comunque quanto questo fenomeno sia diventato ormai numericamente, e per buona parte anche qualitativamente, ponderante. Non c’è casa editrice che non voglia il suo autore sardo in catalogo. Come sempre accade, dei fenomeni si tende a discutere la superficie prima che la sostanza cosicché, colte alla sprovvista, le accademie locali hanno preferito per anni limitare il fenomeno della scrittura sarda, o della scrittura in Sardegna - il distinguo ha un senso profondo -, ad un fuoco di paglia generato da occhiuti “intellettuali” troppo continentalizzati, ma destinato a spegnersi immediatamente. Noi abbiamo generato, è bene ricordarlo sempre, una classe di accademici che, a parte rare eccezioni, ha ritenuto il Nobel alla Deledda una fortunatissima, quanto immeritata, congiuntura. E questo perché si pensava, e in molti corridoi universitari sardi si pensa ancora, che una scrittura dalla Sardegna al Mondo fosse una possibilità altamente improbabile. È vero che storicamente dall’interno dell’Isola si è prestato il destro a chi concepiva una letteratura di imitazione piuttosto che un prodotto autoctono, ma è anche vero che in letteratura è sempre piuttosto ardito riuscire a parlare di autonomia. Per fortuna quando si fa questo mestiere si dipende da qualcuno che dipende a sua volta da qualche altro. Cosicché risulta spesso più provinciale cercare di smarcarsi dall’ovvia colleganza che lega i partecipanti alla tavola della scrittura piuttosto ammetterne l’ineluttabilità. Altra cosa è dare un ambito e un genere alla scrittura contemporanea in Sardegna. È scrittura internazionale? È noir? La risposta ad entrambe le domande è tendenzialmente sì. È internazionale, come abbiamo detto, nell’accezione di non subire il complesso del figlio cadetto che deve sempre giustificare le sue azioni; è noir nell’accezione più tecnica del termine, e cioè in quanto scrittura di inquietudine, dove il diktat è “affascinare, tenere desta l’attenzione e avere qualcosa da dire” esattamente come accadeva ai poeti e raccontatori estemporanei da cui molti di noi, scrittori e sardi, provengono. A differenza di quanto la vulgata trasmetta, anche la capostipite Deledda, madre della forma romanzo in Sardegna, volontariamente, se non programmaticamente, profuse dosi massicce di letteratura di genere nei suoi romanzi, fino a sfiorare, se non ad abitare il feuilleton. Ma è nel contemporaneo che la saldatura tra l’analisi antropologica e la scrittura cosiddetta di genere trova un esito affatto noir in Sardegna. Le caratteristiche ci sono tutte: si fa parte di un’isola, quindi di un microcosmo di sopravvivenze, e ci si è formati ascoltando le narrazioni di epiche sanguinarie. Si consiste cioè in quel bilico tra ponderabile e imponderabile che se non permette il positivismo catartico del genere giallo enigmistico, quello che Camilleri ha più volte definito pudicamente sciarada; tuttavia permette di raccontare vicende dove la domanda principale non è tanto chi è stato? bensì: perché l’ha fatto? Ogni letteratura cresce in base alla particolare chimica territorio in cui si sviluppa e dell’immaginario che lo nutre. Cronologicamente iniziano Giulio Angioni e Salvatore Mannuzzu, l’anno è il 1988, con L’oro di Fraus e Procedura. Storia di ordinaria malamministrazione il primo e di straordinaria autoanalisi il secondo, entrambi i romanzi, diversissimi, si muovono nell’ambito dell’indagine poliziesca. Più collegato a Sciascia Angioni e, forse, a Buzzati, o Dürrenmatt, Mannuzzu, hanno avuto il merito di concepire due vicende insieme locali e internazionali e di fondare quel paradigma che apre la via della “scrittura di genere” anche a Sergio Atzeni, che accede al romanzo a chiave solo nel 1991 col Figlio di Bakunìn, e il sottoscritto che pubblica Ferro recente nel 1992. A sistemare le date si evitano pertanto facili agiografie e concepisce una contemporaneità di azione che specifica quanto di “atmosferico” attraversasse quell’affacciarsi al mondo di una letteratura che aveva avuto splendidi, solitari campioni, Salvatore Satta e Giuseppe Dessì in testa, ma non un movimento, se non organico, perlomeno diffuso. Tra il 1988 e il 1992 dunque i giochi sono fatti, il dado è tratto. Quattro romanzi che sistemano il carico e aggiustano il tiro. Tradizionali e contemporanei senza soluzione di continuità: la storia recente raccontata attraverso la coscienza della propria inattualità; la ricerca di se stessi attraverso una crisi diretta come toccare la carne viva di una ferita; la storia di un uomo senza che quest’uomo appaia mai; un frammento di arcaico dentro al cinismo contemporaneo. Queste sono le soluzioni salienti e i territori dentro ai quali questa scuola apparente, questo millantato rinascimento, si è mosso e si muove. In linea di massima la vicenda editoriale della scrittura in Sardegna fino ai giorni nostri non ha disatteso queste coordinate, ne ha semmai organizzato i sistemi, oscillando tra il sapore locale e la ricerca di modelli metropolitani; tra la strada impervia, qualche volta sterile, del mistilinguismo, e quella, a rischio di provincialismo, del metropolitano d’accatto. Dietro un angolo c’è il Folk, dietro l’altro c’è il patetico periferico. La strada maestra condurrebbe dritta verso l’innesto tra l’estremamente arcaico e l’estremamente contemporaneo… Nella teoria cronologica delle opere nel genere, e noir, si inserisce con prepotenza nel 1995 un potentissimo romanzo di vendetta senza redenzione che Maria Giacobbe, da Nuoro, intitola Gli Arcipelaghi, tre anni dopo un giovanissimo Francesco Abate, da Cagliari, esce con un romanzo di ordinaria vita cittadina dal titolo Mister Dabolina. È la seconda fase, ma già si sono assodati i poli, gli estremi dell’elastico, attraverso il quale si estende la partecipazione sarda al banchetto della scrittura di genere o meno che sia. La storia apparentemente tradizionale della Giacobbe e quella apparentemente metropolitana di Abate sanciscono lo spazio di attività e in qualche modo chiariscono che la sintesi tra le spinte locali, rurali e quelle esterne, cittadine, sono la linfa stessa del percorso che coscientemente o meno si sta compiendo. Da questo punto, se si esclude la geniale sintesi costituita da Bellas Mariposas di Sergio Atzeni del 1995, le due strade non si incontreranno mai se non nel territorio del noir. Salvatore Niffoi esordisce ufficialmente nel 1999 con un romanzo mai eguagliato Il viaggio degli inganni che rappresenta uno degli esiti più strutturati ed efficaci di una grammatica apparentemente fanciulla ma di fatto già matura. Del 2000 i promettenti Diavoli di Nurajò e Faulas rispettivamente di Flavio Soriga e di Luciano Marroccu, il primo votato a sperimentalismi linguistici non sempre completamente metabolizzati, il secondo sull’onda dell’impasto tradizionale e senza sorprese come un buon cibo casalingo. Del 2001 lo straordinario debutto editoriale di uno scrittore, Giorgio Todde, che molto aveva scritto e nulla, fino ad allora, pubblicato. Lo stato delle anime è un romanzo esplicitamente poliziesco ed esplicitamente un esercizio di stile, accattivante e scritto benissimo, come dovrebbe essere sempre e purtroppo sempre non è. Del 2004 Creaturine di Alberto Capitta abbraccia in tutto e per tutto la strada della scrittura come dispositivo da sfruttare sino alle estreme conseguenze e Gianluca Floris, con La Preda del 2006, tenta la strada del mainstream assumendosi il rischio di infilarsi nel ginepraio del luogo comune. È la stagione in cui la divaricazione sostanziale fra autori rurali e autori cittadini si sviluppa, soprattutto grazie al crescente successo di pubblico, in una tendenza etnocentrica. L’apice e la crisi del sistema, come sempre accade, coincidono perfettamente. Il 2007 segna l’ingresso di uno scrittore complesso e documentato che costruisce una storia ampia e ricca di spunti: Alessandro De Roma, che scrive Vita e morte di Ludovico Lauter. Sono passati non più di quindici anni dal duumvirato Mannuzzu /Angioni che già si può parlare di una generazione affrancata. Discorso a parte, ma non troppo, merita il percorso di Giovanni Maria Bellu che con L’uomo che voleva essere Peron del 2008 si innerva in una tradizione parallela, quella della docu-fiction, che ha il suo padre tradizionale nella figura straordinaria di Peppino Fiori, che da Sonetaula del 1960 a Il Venditore del 1995, aveva percorso la strada di mescolare in un unico sapidissimo composto la storia, l’attualità, la fiction. La salute di un fenomeno, per quanto, continuamente, nuove prefiche si alternino al suo capezzale, si stabilisce anche dalla capacità di generare esperienze nuove. Il biennio 2008 - 2009 ha visto la pubblicazione di almeno quattro autori notevoli: Michela Murgia, Wilson Saba, Giovanni Carta, Elias Mandreu. Narratrice assoluta la prima con Accabadora ha guardato il baratro del coloristico locale senza mai nemmeno sfiorarlo; sarcastico, cinico e coltissimo il secondo in Giorni migliori racconta una storia sagace e stralunata; volenteroso, entusiasta e dotatissimo sul piano della scrittura il terzo pubblica Il rumore dell’acqua, del ferro, nel fieno e del giunco che stringe. Ho lasciato per ultimi Elias Mandreu, che sono un esperimento ben riuscito di autore collettivo e che rappresentano in qualche modo l’esito definito e, sostanzialmente, sintetico del percorso ventennale che ho cercato, a grandi linee, di raccontare; nel loro fluviale romanzo d’esordio hanno costruito una storia perfettamente innestata nel ceppo di una forma diventata ormai tradizionale per acclamazione… Ah il romanzo si intitola Nero Riflesso c’era da dirlo? |
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