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Biografia |
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Leonardo Padura Fuentes (L’Avana, 1955) si è laureato in Filologia Ispanica presso l’Universidad de La Habana nel 1980. Scrittore, giornalista e sceneggiatore, ha lavorato per la rivista «El Caimán Barbudo» (1980-1983), il periodico «Juventud Rebelde» (1983-1989), per la rivista culturale «La Gaceta de Cuba» (1989-1995) in qualità di caporedattore e per la rivista internazionale «Crimen y Castigo» (1994-95) come direttore editoriale.
Ha ottenuto tra gli altri, i seguenti premi giornalistici: Prima Menzione al Concorso Latinoamericano del Giornalismo “José Martí” (1988); Premio della Critica Letteraria nel 1985 e nel 1988 il Concorso “26 de Julio”; nel 1985 ha ricevuto anche il Premio “Mirta Aguirre”. Sempre nello stesso anno gli è stato consegnato il Premio Nazionale del Giornalismo Culturale “José Antonio Fernández de Castro”.
Anche in qualità di scrittore ha ricevuto numerosi premi letterari, tra cui: nel 1982 la Menzione al Concorso Latinoamericano dalla rivista messicana «Plural»; nello stesso anno, dalla Unión de Escritores y Artistas de Cuba, una menzione nel concorso «David» per scrittori esordienti; nel 1985 il Premio saggistico “13 de Marzo” e nel 1988 sempre nel settore della saggistica il Premio “El Caimán Barbudo”; nel 1988 il Premio per la Narrativa “80 aniversario de la revista Bohemia”; nel 1993 il Premio Speciale “Alejo Carpentier” per il saggio Un camino de medio siglo: Carpentier y la narrativa de lo real maravilloso; nello stesso anno il Premio Nazionale della Narrativa “Cirilo Villaverde”, per Vientos de Cuaresma (Venti di Quaresima); nel 1997 il Premio Internazionale della Letteratura “Café Gijón” (Spagna), il Premio Internazionale “Dashiell Hammett” e il Premio della Critica per Máscaras (Maschere); nel 1998 i Premi “Dashiell Hammett”, Premio de las Islas (Francia) e il Premio della Critica per Paisaje de otoño (Paesaggio d’autunno); nel 2001-2 il premio Internazionale della Letteratura “Casa de Teatro” (Repubblica Dominicana) e il Premio dell’América Insular y la Guyana per La novela de mi vida (Il romanzo della mia vita); nel 2005 i Premi “Brigada 21” (Spagna) e “Dashiell Hammett” per il miglior romanzo poliziesco pubblicato in lingua spagnola, La neblina del ayer (La nebbia del passato), e l’anno seguente per lo stesso romanzo il Premio della Critica.
Come sceneggiatore ha collaborato al documentario El viaje más largo (1988), premiato al Festival del Nuevo Cine Latinoamericano (L’Avana), e l’anno successivo al documentario Esta es mi alma. Nel 1990 ha lavorato per la docufiction Una historia de amor e per il documentario Yo soy, del son a la salsa vincitore del Festival Interancional del Nuevo Cine Latinoamericano e del Premio Speciale della Giuria al Festival de Cine de San Juan (Portorico). Inoltre ha scritto le sceneggiature dei lungometraggi Malabana (in collaborazione con Daniel Chavarría) e Hace calor en La Habana (in collaborazione con Alex Fleites e Lucía López Coll).
Padura Fuentes, al di là dei premi ricevuti, è il più interessante tra i numerosi scrittori di letteratura poliziesca nella Cuba degli anni recenti. Ha conquistato critica e pubblico di tutto il mondo con il ciclo di romanzi Las cuatro estaciones (Le quattro stagioni) che hanno come protagonista il tenente di polizia Mario Conde, un personaggio asciutto, pratico: «Conde è un personaggio fittizio, inventato per la letteratura con una serie di caratteristiche di cui avevo bisogno per avere un personaggio che desse una visione intelligente e disincantata della realtà. È un detective particolare nella maniera di vedere il mondo e di lavorare. Come protagonista di una serie, la mia relazione con lui è cresciuta di libro in libro, al punto che nel quarto romanzo del ciclo Le quattro stagioni ho scoperto che Conde era nato il mio stesso giorno, con un anno di differenza perché all’inizio non ci avevo pensato. Apparteniamo dunque alla stessa generazione, siamo cresciuti nello stesso paese, nelle stesse condizioni, abbiamo un’altra affinità importante, lo stesso gusto per la letteratura. Come personaggio di romanzi lui fa il suo lavoro per la polizia, e poi diventa investigatore. Io, nella realtà, sono uno scrittore: mi è stato utile passare al personaggio di Conde i miei gusti, la mia maniera di vedere la vita, la passione per la scrittura, per il baseball, il senso di appartenenza a un piccolo quartiere de L’Avana, l’allegria e il dolore di vivere in una città come L’Avana che si sta deteriorando ma conserva il suo spirito. Tuttavia non credo sia un alter ego. In questi libri Mario Conde è i miei occhi, la forma in cui proietto il mio sguardo sulla realtà cubana».
Nei suoi romanzi la solida costruzione poliziesca si innesta in precise ambientazioni cubane e si apre a temi finora reputati estremamente spinosi come la difficile condizione degli omosessuali e la corruzione degli amministratori. Per Padura Fuentes, quindi, il poliziesco è solo un pretesto per parlare della società cubana e fare un esame di coscienza della sua generazione.
«Quando ho deciso di scrivere letteratura poliziesca – ha dichiarato in un’altra intervista – l’ho fatto pensando che fosse un mezzo molto adatto per la critica sociale. La letteratura poliziesca ci connette con i lati oscuri della realtà umana, con il mondo del crimine, delle malversazioni. C’è un impegno evidente di rappresentare la realtà cubana con cui convivo e di riflettere su di essa. Come scrittore di fiction ho maggiori possibilità di comunicare le mie preoccupazioni di tipo sociale di quante ne abbia come giornalista. A Cuba la stampa ufficiale è una stampa di Stato e il giornalismo fa propaganda del sistema cubano. La letteratura ha un altro spazio in cui si può includere la critica sociale. È quello che ho cercato di fare con tutti i romanzi e anche con i racconti che ho scritto. Ho cercato di dare una visione critica della realtà cubana».
La sua scrittura è una riflessione su come si sia trasformata Cuba, in che modo sia cambiata dagli anni Sessanta, epoca dell’inizio della crisi con gli Stati Uniti, a oggi, divenuta la meta di mezzo mondo, mentre il governo deve fare i conti con il crollo dei sistemi socialisti, dai quali dipendeva il relativo benessere dell’isola Caraibica. La sua visione pessimistica si può riassumere in questa dichiarazione: «C’è chi la ritiene, idealizzandola, un paradiso di giustizia sociale, altri la demonizzano come un luogo di repressione e mancanza di libertà. Cielo e inferno, insomma. Da uomo e scrittore posso dire che la vita a Cuba non è così paradisiaca, ma neppure infernale. La salute pubblica e l’istruzione sono per esempio garantite e difese. Ma è un posto dove ci sono tremende difficoltà economiche e la gente fa sforzi enormi per procurarsi il denaro indispensabile a condurre una vita degna di questo nome».
I problemi economici, più sentiti di quelli politici, hanno come conseguenza la fuga da Cuba: «Non sono solo gli artisti e gli sportivi che fuggono da Cuba, ma persone di diverso livello e diverse professioni che cercano la fortuna e la libertà emigrando. È la prova della stanchezza e della delusione di cui soffrono molti a Cuba oggi. È un esilio politico ed economico. Fuori di Cuba si propaganda di più l’esilio politico, ma fondamentalmente è un esilio economico: diciamo che di cento persone che se ne vanno, solo una o due si dedicano ad attività politica. Gli altri cercano un lavoro per vivere meglio. Anche a Miami, dove si esagera sulla presenza dei cubani con un interesse politico, la maggior parte dei cubani che lì vivono conducono una vita normale, non vanno a manifestazioni politiche né si occupano di politica».
E sul dopo Castro: «Tutto dipende dal momento in cui ciò accadrà. Devo precisare che la situazione di Cuba si sta allineando, per quanto strano sembri, a quella del resto del mondo. Ci sono fermenti nella nostra società che mi preoccupano molto. Malesseri che quindici o venti fa non esistevano: come la droga, per la quale sono previste pene severissime, la prostituzione, una nascente violenza, o certi emergenti fenomeni di corruzione. [...] Credo che si stia preparando uno scenario internazionale per nulla gradevole che farà rimpiangere sicuramente il passato. È per questo che la nostalgia pervade tutti i miei romanzi».
Il tema della nostalgia viene riassunto in questa risposta a un’intervista: «Credo che Conde respiri dall’ambiente la disillusione (ma in spagnolo c’è una parola migliore, il desencanto) per una situazione che si vive nella Cuba contemporanea. è l’espressione del desencanto che si sente in molte persone negli anni recenti. Il progetto sociale cubano si è modificato con delle misure inimmaginabili anni fa. Quello che più ha segnato la mia generazione ha a che fare con il fatto che siamo stati educati nella convinzione che il socialismo era la grande soluzione per i problemi dell’umanità e avrebbe trionfato e si sarebbe imposto in tutto il mondo. Quando poi si sono sapute certe verità che venivano dall’Europa, quando si è saputo di Stalin, si provocò un desencanto nella mia generazione, che era stata la prima educata nel socialismo cubano. Abbiamo pensato di essere stati indotti a pensare in una maniera che poi la realtà ha smentito».
Nonostante la sua posizione critica, vive da sempre nel quartiere habanero di Mantilla e ama profondamente Cuba, e a chi erroneamente pensasse a lui come a un dissidente, risponde: «Fare lo scrittore a Cuba è senz’altro difficile, ma la mia scelta è di essere un testimone della realtà in cui vivo: non m’interessa una letteratura “asettica” che non ne tenga conto. Noi cubani abbiamo un forte senso di appartenenza alla nostra cultura, alla nostra terra, e comunque la sorte dell’esule è sempre molto dolorosa. [...] Cuba è un luogo strano, un po’ misterioso, dove è difficile mangiare ma non si muore di fame, non ci può essere un bambino che non studia, non esiste la malasanità. Indubbiamente c’è una leadership unica, e quindi una mancanza di libertà d’espressione, ma a Cuba è possibile vivere ed è possibile scrivere [...] L’Avana, il quartiere di Mantilla: la mia casa con il giardino, il cane, il computer, i libri. Con Lucia. Non potrei vivere da nessun’altra parte. È una limitazione terribile, lo so, ma mi sentirei a disagio lontano dalla musica che i vicini mettono a tutto volume e a qualsiasi ora, senza le grida di chi vende uova, cipolle e pesce, senza i ruggiti dei vecchi autobus che attraversano le strade. In fondo credo di essere un uomo abbastanza abitudinario. E poi, tante altre città sono stupende, ma io le trovo mute, mentre L’Avana mi parla: io ascolto quella che si vede e quella più nascosta, la pulita e la sporca, la buona e la cattiva. Tutte insieme nutrono la mia fantasia, si completano e mi completano come uomo, e questo senso di me non vorrei perderlo per nessuna ragione al mondo». |
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