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  Il soffio divino: creare un personaggio  
 
autore
Leonardo Padura Fuentes
Un inedito di Leonardo Padura Fuentes
Venti anni fa, durante uno dei capovolgimenti più insperati della storia, quando nel mondo ancora rimbombavano i colpi che avevano abbattuto il muro di Berlino, creai il personaggio di Mario Conde. Come avviene in quasi tutti i concepimenti (tranne quelli assolutamente divini), solo dopo alcune settimane riuscii a cogliere le sue prime palpitazioni, trasformate nelle esigenze letterarie, concettuali e biografiche che avrebbero dato peso ed entità al personaggio: come a qualsivoglia creatura.

Fu sul finire del 1989 che con la mia cara Olivetti – mio padre la usa tuttora – cominciai ad avvicinarmi all’idea da cui avrebbe avuto origine il romanzo Pasado perfecto (pubblicato nel 1991), nel quale nasce Mario Conde. Quello fu un anno complesso, difficile e, alla lunga, fecondo; un anno che – senza che nemmeno lo immaginassi – avrebbe cambiato il mondo, avrebbe cambiato la mia visione di quel mondo e mi avrebbe permesso – grazie a questi cambiamenti sia interni che esterni – di trovare la strada per scrivere il romanzo che ha anche cambiato il mio rapporto con la letteratura. Per me il 1989 fu un anno di crisi di identità e di creazione. Da sei anni le vicissitudini dell’intransigenza politica mi avevano spinto a lavorare per un quotidiano pomeridiano, «Juventud rebelde», e finii per diventare giornalista. Oggi è curioso pensare che ciò che i padroni del destino avevano immaginato come un castigo – il passaggio da una rivista culturale a un quotidiano – si sia invece trasformato in un premio: più che un semplice giornalista ero diventato un punto di riferimento, un esempio di ciò che, con sforzo e immaginazione, si poteva ancora fare entro i margini, sempre stretti, della stampa ufficiale cubana. Il prezzo che avevo dovuto pagare per dare vita a questo “nuovo giornalismo” cubano, che fiorì negli anni Ottanta, fu senz’altro alto, benché, alla lunga, proficuo: pressato com’ero da un lavoro giornalistico che implicava lunghe ricerche e un’accurata scrittura di storie smarrite sotto gli orpelli della Storia nazionale, dalla conclusione del mio primo romanzo, Fiebre de caballo (finito nel 1984 e pubblicato nel 1988) e dai racconti del volume Según pasan los años (pubblicati nel 1989 ma scritti tempo prima) non avevo più ripreso a scrivere letteratura. Se a questo sforzo si aggiunge l’anno estenuante che tra il 1985 e il 1986 ho trascorso in Angola in qualità di corrispondente, si ha subito il quadro d’insieme sia dei fattori per i quali vissi sei anni come giornalista, sfiorando a malapena la letteratura, sia della ragione per la quale, nel 1989, una forte crisi mi spinse a lasciare il giornalismo quotidiano e a cercarmi un angolo propizio che mi permettesse di avere il tempo e la capacità mentale di tentare un ritorno alla letteratura.

Ma quello fu un anno durante il quale suonarono molte campane. La società cubana aveva vissuto un’estate particolarmente calda: in quei mesi erano stati celebrati due processi storici, le cause 1 e 2/89, nelle quali vennero prima giudicati e poi anche fucilati diversi alti quadri dell’esercito e del Ministero degli Interni (incluso addirittura il ministro, morto nella sua cella) per corruzione, narcotraffico e tradimento della patria. Quei fatti ci permisero di “scoprire” qualcosa di fondamentale, qualcosa che fino a quel momento non immaginavamo neanche, vale a dire che la struttura politica, militare e ideologica cubana, in apparenza monolitica, era invece attraversata da una profondissima crepa: generali, ministri e figure importanti del partito si erano rivelati dei corrotti (sebbene questo lo sapessimo già) e persino dei narcotrafficanti.

Nell’ottobre dello stesso anno accadde anche qualcosa di molto più personale ma non per questo meno fondamentale per lo stravolgimento delle mie concezioni sulla vita… e sulla letteratura. Visitai per la prima volta il Messico, invitato a un incontro di scrittori di romanzi polizieschi, benché io non ne avessi ancora scritto alcuno. Durante quelle giornate messicane, mentre compivo trentaquattro anni, feci in modo di conoscere un luogo altamente simbolico e storico, che tuttavia per la mia generazione era stato solo un silenzioso mistero, e, ancora peggio, un pericoloso tabù: la casa di Coyoacán nella quale era vissuto e morto León Trotski, “il rinnegato”.

Ricordo ancora oggi la commozione per quella visita alla casa-fortezza (divenuta più tardi Museo del Diritto di asilo), dalle mura quasi carcerarie tra le quali si era rinchiuso uno dei leader della Rivoluzione di Ottobre per cercare di salvare la sua vita dal livore assassino di Stalin – dal quale non riuscì comunque a scappare, come non ci riuscirono altri venti milioni di sovietici e decine di migliaia di cittadini di altre nazionalità; qualcosa che né io né tanti altri sappiamo ancora con certezza. Ma l’impressione più viscerale e profonda lasciatami da quella visita alla casa-mausoleo di Trotski fu la sensazione che il dramma consumatosi in quel luogo cupo mi stesse sussurrando all’orecchio un messaggio allarmante: sono necessari il crimine, l’inganno, il potere assoluto di un uomo e la sottrazione della libertà individuale per far sì che prima o poi tutti possiamo accedere alla più bella ma utopistica delle libertà collettive?

Di ritorno a Cuba, pochi giorni dopo quella visita tanto rivoltante quanto istruttiva, fummo testimoni di qualcosa di impensabile, di qualcosa che solo un mese prima, nella casa di Trotski, non avrei immaginato che sarebbe potuto accadere: in modo pacifico, come una festa di libertà, i tedeschi buttavano giù, fisicamente e politicamente, il Muro di Berlino, annunciando – solo allora fummo in grado di percepirlo nitidamente – la fine del socialismo in Europa.

Senza l’intrecciarsi di tutti questi avvenimenti, che riempirono la mia vita materiale, spirituale e ideologica, di incertezze piuttosto che di certezze, forse non avrei mai affrontato come una sfida alle mie capacità letterarie e all’ambiente cubano circostante, la scrittura del mio primo romanzo poliziesco, del quale composi i primi paragrafi proprio durante quelle settimane. Per fortuna, all’inizio del 1990 – anno non meno storico e rivelatore del precedente – fui in condizione di lasciare definitivamente il giornale e cominciai a lavorare come capo redattore di una rivista mensile di cultura, «La gaceta de Cuba»; lavoro che mi consentiva di avere almeno tre, e talvolta addirittura quattro, giorni liberi a settimana; tempo che dedicai a scrivere il mio romanzo poliziesco.

Quando si scrive un poliziesco l’autore deve avere presente diverse varianti o percorsi artistici, tra i quali, a seconda delle sue preferenze e soprattutto delle sue capacità, potrà scegliere. Per esempio, si può scrivere un romanzo poliziesco per raccontare come viene scoperta la misteriosa identità di colui che ha commesso un crimine. Ma si può anche scrivere un romanzo poliziesco con l’intenzione di proporre un’indagine più profonda sulle circostanze (contesto, società, epoca) nelle quali ha avuto luogo tale crimine. Si può altrimenti fare uso di un linguaggio, di una struttura e di personaggi funzionali e comunicativi, o si può invece scriverlo con un intento stilistico, creando una struttura che sia più di un semplice espediente investigativo con la soluzione di un enigma e proponendo la creazione di personaggi che abbiano un loro spessore psicologico e un peso specifico come referenti di realtà sociali e storiche. È persino possibile scrivere un romanzo poliziesco col solo intento di divertire e compiacere, di giocare a costruire enigmi o, se ci si riesce e si vuole, con l’intento di allertare, indagare, rivelare e prendere sul serio le cose della società e della letteratura… dimenticandosi anche gli enigmi.

Preso atto della stagione disastrosa che viveva allora il romanzo poliziesco cubano – divenuto, nella quasi totalità dei casi, un romanzo di compiacenza politica, essenzialmente ufficiale e con scarsa volontà letteraria – era chiaro che non potevo cercare i miei punti di riferimento tra i miei colleghi cubani; al contrario, se mai il loro esempio doveva servirmi come monito per non precipitare nei loro stessi abissi. Ma c’era un altro tipo di romanzo poliziesco, di carattere sociale e di qualità letteraria, anche in lingua spagnola, di scrittori che vivevano nel mio tempo, ma non nella mia terra. Questo fu il mio punto di riferimento, il mio primo obiettivo.

Una volta delineati alcuni punti della narrazione che avrei sviluppato nel romanzo – la scomparsa di un alto funzionario cubano, persona apparentemente senza macchia, ma in realtà un corrotto, opportunista e cinico – mi imbattei in un’esigenza creativa dalla cui risoluzione dipendeva l’esito del progetto – ricco di ambizioni letterarie – nel quale mi stavo tuffando: il personaggio che avrebbe supportato il peso della storia, consegnandola ai lettori.

Ci sono scrittori che prima di cominciare a lavorare a un romanzo “sentono” la voce narrante che utilizzeranno – le possibilità sono diverse, e diversi sono anche i risultati –, altri che riescono persino a scorgere il “tono” della narrazione che costruiranno. Nel mio caso, invece, fu necessario un percorso complesso prima di intravedere l’opzione narrativa che alla fine scelsi: una terza persona la cui onniscienza valesse solo per il protagonista, il quale, dunque, doveva essere protagonista attivo ma anche testimone e giudice dei comportamenti e degli atteggiamenti degli altri personaggi. Questa trovata – una sorta di prima persona celata – mi consentiva una vicinanza al protagonista che, a sua volta, mi dava la possibilità di trasformare questo personaggio in una sorta di ponte tra i miei concetti, i gusti e le fobie riguardo i più svariati aspetti dell’ambito sociale e spirituale, da un lato, e la società, il tempo e le circostanze nelle quali il personaggio doveva operare, dall’altro. In un certo modo, il protagonista diveniva il mio interprete della realtà presentata – ovvero, la realtà cubana che io vivevo, la mia realtà. La limitata onniscienza di questo personaggio mi preservava inoltre da un errore spesso commesso da altri scrittori di polizieschi, i cui narratori sono a conoscenza della storia nei minimi dettagli… ma ci nascondono l’elemento più interessante, ovvero, l’identità dell’assassino, che in genere conosciamo e che abbiamo sentito nominare diverse volte nel corso del romanzo.

Questo personaggio con il quale mi prefiggevo di lavorare e sul quale gravava questa grande responsabilità concettuale e stilistica, aveva bisogno di molta carne e molta anima per divenire qualcosa di più di un semplice e adeguato interprete delle realtà proprie di un contesto così singolare come quello cubano. Per creare la sua umanità, una delle decisioni più facili e logiche che presi fu quella di caratterizzare il mio protagonista come un uomo della mia generazione, nato in un quartiere come il mio, che aveva studiato nelle stesse scuole in cui io avevo studiato; dunque, un personaggio con esperienze di vita simili alle mie. Tuttavia, quell’“uomo” doveva avere una caratteristica che a me è totalmente estranea, che addirittura aborro: doveva fare il poliziotto. La verosimiglianza, che secondo Chandler è l’essenza stessa sia del romanzo poliziesco sia di qualsivoglia altra narrazione realistica, implicava questo mestiere per il mio personaggio, dal momento che in un contesto come quello cubano sarebbe stato impossibile – nonché incredibile – situare un investigatore che per conto proprio e in solitario partisse alla ricerca di un assassino. In questo modo, la vicinanza della voce narrante e della componente biografica alla mia vicenda personale, veniva oscurata da un modo di agire, di pensare e di porsi che a me è completamente sconosciuto.

Fu proprio mentre ero lì, intento a risolvere questo dilemma, che forse Mario Conde esalò il suo primo respiro come creatura viva: l’avrei costruito come una sorta di antipoliziotto, un poliziotto letterario, verosimile solo entro i margini della finzione narrativa, impensabile nella realtà poliziesca. La mia condizione di scrittore mi consentiva questo gioco, e decisi di sfruttare l’opportunità.

Mentre scrivevo i primi paragrafi di Pasado perfecto – quell’istante di genesi nel quale Conde, svegliandosi da una brutta sbornia che gli fa scoppiare la testa, risponde alla telefonata del suo capo – si schiusero dunque le porte di quella creazione letteraria. Da quel momento in poi intrapresi la sua reale costruzione: oltre che dedito all’alcool, sarebbe stato amante della letteratura (scrittore “rimandato” più che frustrato), con gusti estetici piuttosto precisi; nonostante alcuni aspetti da eremita, avrebbe fatto parte di una tribù di amici nella quale la sua umanità trovava un complemento e che gli consentiva di esercitare una delle sue religioni: il culto dell’amicizia; oltre che nostalgico, sarebbe stato anche intelligente, ironico, tenero e romantico, senza appoggi né ambizioni materiali. In più, anche cornuto; in fin dei conti, sarebbe stato un poliziotto investigativo, non un repressore.

Questo antipoliziotto fece la sua comparsa in Pasado perfecto, senza neanche immaginare (e tanto meno lo immaginavo io) che sarebbe diventato il protagonista di una serie che conta ormai sei romanzi. Ma sin dal primo respiro questo personaggio porta nei suoi geni quella contraddizione che ho cercato di sfumare: perché in realtà Mario Conde non è mai stato un vero poliziotto: semmai, si potrebbe dire che ha fatto il poliziotto di mestiere, e ha sofferto per questo.

Quando il libro uscì in Messico, nel 1991, presi una ventina di copie da regalare ai miei amici cubani; fu una sorpresa scoprire che alla maggior parte di loro il libro piaceva, e piaceva fondamentalmente per il carattere del protagonista. Questa rivelazione, insieme a un’esigenza interiore che mi sollecitava a dare più spazio a quella creatura, mi spinsero a scrivere altri tre romanzi con Mario Conde, prima ancora di sapere se sarei riuscito a scriverne quanto meno uno.

A distanza di anni, con l’esperienza letteraria acquisita e con sei romanzi alle spalle, è chiaro che l’evoluzione di Mario Conde ha un legame diretto con la mia evoluzione come individuo. Se di fronte a Pasado perfecto sento che Conde ha ancora un certo carattere funzionale, quando iniziai a scrivere Vientos de cuaresma, ormai deciso che sarebbe stato l’investigatore di almeno quattro romanzi, la sua composizione psicologica e spirituale diventò più completa, così come si fece più evidente l’impossibilità di mantenere il suo carattere di poliziotto, finanche quello che gli avevo dato di poliziotto letterario.

Da allora, dunque, è incominciato un lento processo di evoluzione del personaggio, che muove in due direzioni: in primo luogo, lo sviluppo del suo carattere, che è diventato via via più rotondo, acquisendo tratti sempre più umani e vivi; in secondo luogo, il suo avvicinamento a me e il mio avvicinamento a lui, fino al punto che Conde si è trasformato, se non in un alter ego, quanto meno nella mia voce, nei miei occhi, nelle mie ossessioni e preoccupazioni lungo questi vent’anni di convivenza umana e letteraria. Non è un caso, allora, che in quella che avrebbe dovuto essere la sua ultima apparizione, Paisaje de otoño – romanzo del 1998 che chiude la tetralogia che ho chiamato Las cuatro estaciones, e che dal punto di vista cronologico si colloca, non a caso, proprio in quell’anno critico che è il 1989 – Mario Conde abbandoni finalmente la polizia; e lo fa il giorno del suo compleanno, il 9 ottobre, che è anche, manco a dirlo, il giorno del mio compleanno.

Da quel momento in poi, consumata in molti modi diversi la comunione tra Mario Conde e lo scrittore, ho scoperto che esistevano forme per mantenere attivo il personaggio, per fargli svolgere addirittura ricerche criminali senza che fosse più un membro attivo della polizia. Con molta cura gli ho cercato un mestiere e l’ho trasformato in compratore-venditore di libri vecchi, pratica alquanto comune nella Cuba della crisi degli anni Novanta. Questo consentiva al personaggio di soddisfare due condizioni importanti: rimanere vicino alla strada e, al contempo, vicino alla letteratura. Del resto, nei romanzi Adiós, Hemingway e La neblina del ayer (2005) veniva operato un salto cronologico che collocava le storie nella mia contemporaneità (fatto importante in una società come quella cubana, apparentemente molto statica ma invece molto mutevole) e il personaggio nella mia età vitale e ideologica; età nella quale sono comparsi più dolori fisici e delusioni spirituali di quelli che si sarebbe potuto immaginare quando cominciai a scrivere Pasado perfecto e diedi il mio soffio divino a Mario Conde.

Forse la prova maggiore dell’umanità di Mario Conde e (non ho altro modo per dirlo) del carattere azzeccato della mia creazione, è stato il fatto che i lettori si siano identificati con un uomo come lui, poliziotto per un periodo, disastro personale per sempre. Il grado più alto di questa umanità del personaggio di finzione è stato, tuttavia, la sua trasformazione da personaggio a persona, in quanto l’identificazione dei lettori lo rende una realtà (e non una sorta di emanazione della realtà) con una vita reale, amici reali, amori reali e un futuro possibile. Soprattutto a Cuba, dove conto non solo i primi, ma anche i più fedeli e ossessivi lettori, questa traslazione di Mario Conde verso il piano del concreto ha significato non tanto un riconoscimento per il mio lavoro, quanto una rivelazione di come lo sguardo del personaggio, le sue aspettative, i suoi dubbi e le sue delusioni esprimano un sentimento condiviso dall’intero paese. In questo caso, la letteratura ha occupato il posto di altri discorsi (inesistenti o scarsi), sulla realtà cubana, e dato che Mario Conde ne è l’interprete, il testimone e finanche la vittima, sulla sua figura si è concentrata l’identificazione dei lettori bisognosi di visioni-altre (non ufficiali né trionfalistiche) della società nella quale vivono.

Credo che sia questa capacità del personaggio a mantenerlo, ora e in futuro, letterariamente attivo (o a tenerlo in vita, se lo vediamo come una persona). Se nei primi romanzi in cui è comparso Mario Conde mi serviva non soltanto per indagare su un crimine, ma anche e soprattutto per svelare una realtà, lungo tutti questi anni la sua funzione ha acquisito un profilo sempre più nitido, ed egli avrà sempre di più la responsabilità di svelare l’evoluzione e le ombre di quella realtà nella quale io e lui siamo collocati. Così, le storie di Mario Conde, più o meno caratterizzate come romanzo poliziesco, ma con un intento sempre maggiore di romanzo sociale, mi consentono – è il caso per esempio di La neblina del ayer – e mi consentiranno in futuro di tracciare i contorni di una cronaca della vita cubana contemporanea, nella sua evoluzione e nelle sue involuzioni, sempre dal mio punto di vista, che certo non è l’unico né il più veritiero, ma che esprime una mia visione della realtà. Tuttavia, come sempre, le responsabilità del personaggio saranno più complesse: maturando e invecchiando insieme a me, Mario Conde ha anche il compito di esprimere le incertezze e i timori che accompagnano la mia generazione e le sue particolarità, il senso di fallimento personale, il disincanto sociale, l’incapacità di inserirsi in un mondo con esigenze morali ed economiche diverse, fino alla traumatica espressione del timore crescente per l’inevitabile: la vecchiaia e la morte.

Mantilla, novembre 2009
 
 
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