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Un testo di Giulio Angioni |
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autore |
Giulio Angioni |
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Di solito trovo qualcuno che mi spiega lui di che cosa scrivo. Ne ha tutti i diritti, se ha fatto la fatica di leggermi. Ma la risposta che mi do io è che scrivo del mondo e della vita, sempre e tutti interi, il mondo e la vita e tutto il resto, se c’è un resto, magari altri mondi e altre vite. Ma dicono che scrivo sempre e solo della Sardegna. Non è falso. Credo che nelle mie intenzioni di rappresentazione della Sardegna (e del mondo) col mezzo letterario, all’inizio ci sia stato, preminente, il tema sempre attuale, e negli ultimi decenni attualissimo, del mutamento, sia endogeno che esogeno all’isola, sia programmato (industria chimica, per dire) e sia spontaneo (consumismo, per dire, e Costa Smeralda), e da parte mia con attenzione più allo “spontaneo” che al programmato. Nei miei racconti degli anni Settanta il mutamento incombe sempre in molte forme, compresa, in primo piano, l’emigrazione massiccia di giovani uomini e donne. Il primo tema, che poi mi resta ancora oggi, è quello dell’obsolescenza del vecchio mondo agropastorale: la fine di un mondo durato millenni che scompare. E la vertigine culturale che ne consegue. Credo che, diversamente dalla maggioranza di chi allora faceva narrativa in Sardegna, io non mi collocavo (e non mi colloco) né tra i detrattori del nuovo e i laudatori del vecchio, né tra i vergognosi del vecchio e laudatori del nuovo. Mi pare che per me diventare scrittore è stato conseguenza della percezione del mutamento socio-culturale, della pluralità coeva dei modi di vivere in questo luogo che si continuava a rappresentare e a sentire come immobile e al massimo vanamente speranzoso di cambiamento. E l’antropologia, in particolare lo studio dei mondi tradizionali, ha dato senso al mio essere un sardo in bilico tra tradizione e modernità: continuo a essere un contadino sardo che studia e vive in Europa, curioso di tutto, preoccupato di tutto. Studiarlo da antropologo, il mio mondo d’origine in mutamento, non mi è bastato. E ho fatto ricorso anche all’antichissimo mezzo del raccontare per iscritto, potente e collaudato. E credo di essere stato il primo in Sardegna, e da subito, a usare anche una lingua italiana riconoscibile immediatamente come sarda, con dei registri locali, pur senza innesti alla Camilleri o alla Atzeni di Bellas mariposas. L’essere un antropologo mi ha abituato a certi temi e problemi, come il mutamento e la mescolanza culturale, però non mi pongo mai esplicitamente il problema di essere un antropologo che racconta, o che scrive “noir”. Lo sono, come sono parecchie altre cose altrettanto difficili e più o meno importanti. Essere sardi non è mai stato facile. Nella geografia immaginaria della modernità, quest’isola non si sa mai dove collocarla. Non si sa dove collocarla nemmeno nella geografia della modernità italiana, con la sua vecchia questione meridionale e con la sua nuova questione settentrionale. I sardi, la Sardegna, hanno sofferto a lungo di una specie di oblio esterno, di inesistenza, insomma noi sardi al mondo ci siamo troppo poco, mentre, per esempio, i siciliani ci sono troppo, e i grandi popoli ci sono e basta. Noi sardi abbiamo il problema del nostro posto nel mondo, come molti altri certo. Ma a me pare che l’abbiamo di più. Nei già molti decenni della mia vita ho vissuto la strana esperienza di essere parte di una gente e di una terra che è passata da un’immagine di diversità negativa a un’immagine di diversità positiva, da isola isolata da poena insularis del Ti sbatto in Sardegna! a quest’isola come uno dei migliori paradisi delle vacanze. Io comunque di essere sardo continuo sia a vergognarmi che a essere orgoglioso, sia a sentirmene fortunato che a sentirmene diminuito. Riesco però anche a sentirmi senza troppa difficoltà, oggi, parte del mondo che diciamo occidentale, e questo è già un bel problema identitario nel mondo di oggi visto come un tutto, vivendo qui a due passi dall’Africa simbolo europeo moderno di ogni arretratezza. |
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