Don Winslow, nato a New York il 31 ottobre 1953, vive da tempo a San Diego e qui sono prevalentemente ambientati quasi tutti i suoi romanzi. California dunque, trentasette milioni di abitanti in quattrocentottantadue comuni. Però non la colorata San Francisco (Hammett), non l’enorme Los Angeles (Chandler e Hollywood, Ellroy, Connelly), San Diego invece, ancora più a sud, appena a nord del Messico, sempre sulla costa dell'Oceano Pacifico, la seconda città dello stato per numero di abitanti e l'ottava degli Stati Uniti. Un clima mite tutto l'anno, mai troppo caldo d'estate, mai freddo d'inverno (a gennaio la temperatura media è vicina ai quindici gradi), decine di chilometri di spiagge e di traffici, molti militari, molti surfisti, vite metropolitane di confine. Ha scritto finora (1991-2012) sedici romanzi, la metà tradotti in italiano. Ecco titoli e personaggi dei sei romanzi californiani tradotti (da Einaudi) in ordine di scrittura. La lingua del fuoco è ambientato nell’estate 1997 a Dana Strands, l’ultimo pezzo incontaminato della costa sud. Competenze delitti raggiri truffe nel mondo degli incendi. Jack Wade padre imprenditore edile, madre moglie, tanti muscoli per un metro e novanta, non ha figli e fidanzate, surfa e lavora. Ha fatto la scuola per entrare nella Squadra Incendi, poi sette anni nell’ufficio dello Sceriffo (felice e innamorato, è stato incastrato e licenziato per aver protetto un testimone) e dodici come perito liquidatore nella compagnia di assicurazioni California Fire and Life. Dice: «L’incendio doloso è un crimine che consuma le sue stesse prove». Il potere del cane è ambientato nel 1997 (soprattutto), dal 1975 al maggio 2004 in Messico, a New York e San Diego, poi El Salvador, Honduras, Colombia, altrove. Le storie del narcotraffico iniziano a intrecciarsi nel 1975, alla fine Art e Adan, Sean e Nora sono ancora vivi. Migliaia e migliaia muoiono per loro mano o causa loro. Art “SonoSempreSolo Keller” è del 1950, intelligente cattolico cresciuto in un barrio californiano, padre bianco, madre messicana bella come il figlio, zazzera scura, naso prominente, Operazione Condor in Vietnam, poi agente DEA, una moglie alta magra occhi verdi bionda progressista, due bravi figli, dedica vita e carriera alla Guerra alla droga. Adan Barrera è un poco più giovane, basso smilzo, occhi bruni capelli neri, grande contabile imprenditore, fratello del possente violento Raul, entrambi nipoti di un furbo falso poliziotto che dal piccolo distretto messicano di Badiraguato ha preso in consegna il coordinamento di tutti i traffici malavitosi del confine con gli Stati Uniti (3200 km) per lasciarlo loro. Sean Billy the Kid Callan è del 1960, origini irlandesi in quel di Hell’s Kitchen, alto scuro, ammazza un boss per difendere un amico, diventa un criminale di mafia, racket del lavoro nero, usura, traffici, freddo spietato infallibile assassino su commissione, si innamora, prova ad uscirne, è costretto a un ultimo clamoroso omicidio e a fuggire in Sud America. Nora Hayden è del 1963, incantevole e seducente, occhi azzurri capelli biondi, genitori separandi, a quattordici anni capisce che aiutare gli uomini e fare sesso garantisce altri piaceri, conosce una gestrice di prostitute d’alto bordo, non scopa per un po’ e si trasforma in una escort molto più che da Villa Certosa, la sera della prima vede Sean ma è imposta ad un altro, finge orgasmi da dea, viene solo con le proprie dita, si arricchisce, frequenta ricchi capi, da un certo momento esclusivamente Adan (prima fedele alla moglie, con figlia handicappata) e un casto dolce buon prete. Incipit: «Il neonato è morto tra le braccia della madre. Art Keller deduce dalla posizione dei cadaveri - lei sopra, il bimbo sotto - che la donna ha cercato di fargli da scudo… Credeva forse di poter salvare il bambino? Forse no, pensa Art. Forse non voleva che il piccolo vedesse la morte fiammeggiare dalla canna del fucile… Diciannove cadaveri. Altre diciannove vittime della Guerra alla droga, riflette Art. È abituato alla vista dei cadaveri: sono quattordici anni che combatte quella guerra con Adan Barrera, e ne ha visti parecchi. Ma mai diciannove. Mai donne, bambini, neonati. Non così. Dieci uomini, tre donne, sei bambini». L’inverno di Frankie Machine è ambientato nel gennaio 2006 a San Diego e nelle Hawaii. Tutti amano il prudente e meticoloso mafioso in pensione. D’improvviso scopre che lo vogliono ammazzare, avvisa le sue care donne affinché fuggano, ripercorre tutti i decenni da mafioso, quando si è svegliato provando a vivere la propria vita, dal 1963 ha rifiutato di fare il pescatore italiano come bisnonno nonno padre divenendo prestante autista di boss, è tornato medagliato con onore dal Vietnam, si è affiliato, gli hanno trovato il soprannome di macchina d’oro per uccidere, ha conosciuto Nixon e potenti vari, si è barcamenato fra guerre di bande ed esecuzioni di amici. Frank Machianno, sessantaduenne venditore di esche, grande e grosso, porta i capelli argentati molto corti; vive solo, adora la sua cucina ed è un ottimo cuoco; ha un negozietto di pesca sull’oceano, si rilassa con i cruciverba, è sempre di buon umore e spiritoso, con saggezza da sceriffo risolve i problemi del molo, è abile nuotatore e non perde l’Ora dei Gentiluomini surfisti, spesso in compagnia con lo slanciato poliziotto. Alla sua età ha capito che meno si uccide, meglio è: prima faceva il killer professionista, il sicario più abile della California. Dice: «È l’unica cosa di cui posso andar fiero… Non ho mai ammazzato nessuno che non facesse parte del gioco». Dave Hansen è l’amico della FBI, gestisce una attraente ex moglie italiana Patty (lui era affetto da oligospermia, non riusciva a farla restare incinta), una figlia vegetariana che vorrebbe diventare oncologa, Jill (arrivata d’improvviso dopo nove anni fedeli, la rottura, poche scappatelle), una autonoma cinquantenne bella compagna, Donna, affari collaterali (fra l’altro amministra stabili e vende pesce a ristoranti) che gli permettono di fare bene una tranquilla vitaccia. La pattuglia dell’alba è ambientato nell’ottobre 2006 a San Diego e lungo la Pacific Beach. La “resa dei conti”, ovvero la celebre mareggiata sta per arrivare, i sei della pattuglia la aspettano tra un paio di giorni, sono una squadra di grandi amici (due sono anche una coppia, più o meno), surfisti poco più che trentenni (con un’unica eccezione). All’alba parlano della lista delle cose per cui vale la pena vivere, gioco iniziato a scuola da Boone, Dave e Johnny. Un’altra pattuglia dell’alba sono le bimbe trafficate. Boone BD Daniels, il capo (stipite), vive per cavalcare le onde, era un poliziotto (incappato in una drammatica vicenda di pedofili), fa l’investigatore privato (a tempo perso, giusto per sopravvivere). Sunny Day, padre hippy, madre andata, nonna saggia, illumina di sé il mare, la più brava, alta un metro e ottanta, biondi lunghi capelli, gambe perfette e allenate, buddista, abbronzata cameriera alla tavola calda della spiaggia, in attesa di fare carriera del surf, da un decennio sta con Boone. Dave “the Love God” è sempre in spiaggia, prodigioso bagnino di salvataggio (quattro fallimenti incolpevoli), leggendaria cintura nera di sesso turistico occasionale (nessun fallimento), fisico e viso scolpiti, biondo. Josiah Pamavatuu “High Tide” alza la marea perché pesa oltre centosettanta chili, peloso di origine indonesiana, ex membro di gang, ex stella di football, responsabile pubblico della manutenzione dei tombini e dei canali scolmatori, moglie samoana, tre figli. John Kodani “Johnny Banzai” di origine giapponese, ottimo sportivo, vero judoka, si realizza come leale detective della Omicidi al dipartimento di polizia cittadino, bella famiglia, moglie medico, due figli. Brian Brouesseau “Hang Twelve” è il più giovane, ventunenne commesso nel negozio di articoli sportivi, rasta bianco, secco e pallido, pizzetto, sei dita per piede, uno stomaco immenso. «È surreale. Quel che Johnny vede tra le canne. Boone Daniels che viene barcollando verso di lui, una bambina tra le braccia, il petto zuppo di sangue e altro sangue che gli gronda dalla tempia. - Boone! - grida Johnny. Boone lo guarda con occhi vitrei, finge di averlo riconosciuto e barcolla ancora verso di lui tenendo la bambina davanti a sé, come un naufrago in procinto di annegare che sollevi un ragazzino verso la scialuppa. Adesso Johnny vede che Boone ha ficcato il pollice dentro una ferita sul collo della bambina. Così gli toglie la piccola dalle braccia e sostituisce il suo pollice a quello di Boone. Lui lo guarda. - Grazie, Johnny, - dice, e si schianta al suolo a faccia in giù». Le belve e I re del mondo sono ambientati nel 2009 e nel 2005 a Laguna Beach, uno splendido comunello di 24mila abitanti vicino San Diego, e in Messico, diciamo nel Calexico. Due ragazzi e una ragazza più giovane sono amici, si amano, fanno famiglia e sesso, fumano insieme marijuana e la smerciano alla grande, ricchi grandi produttori di meravigliosa Cannabis idroponica in varie miscele di indica e sativa. Trovano gli antichi genitori genetici (criminali e hippies), si alleano (e lottano) con corruzione e narcotraffico. “O” (Ophelia) è nata il 28 agosto del 1986, leale piuma di un metro e sessantacinque, bel visino, capelli biondi e occhi azzurri, piercing alla narice e tatuaggi vari, tette piccole e una bomba a letto, senza lavoro né altri interessi che maria e sesso, cresciuta dalla madre bella folleggiante e da maschi di passaggio, scopa con Chon e fa l’amore con Ben, sembra felice. “Chon” John, padre un quattordicennio in galera (era in contatto con Frankie Machine), madre dispersa, è magro alto spigoloso muscoloso, rasato disciplinato allenato, nichilista silenzioso violento, all’estero un eroe delle Forze Speciali della Marina (Seal in Afghanistan), sulla spiaggia legge libri, gioca a pallavolo, scopa mogli-trofeo. Ben Carver, genitori entrambi psicanalisti ebrei (ex sinistri ecologisti libertari) ha una doppia laurea a Berkeley in botanica e in marketing, alto magro castano, loquace iperriflessivo scacchista, non-violento radical, con i soldi del traffico di droga vuole aiutare il terzo mondo. “O” «vede una lenta panoramica di quello che sembra l’interno di una capannone, con sette teste staccate dai relativi busti e allineate sul pavimento. Tutti uomini, tutti con i capelli neri arruffati. Le facce esprimono dolore, shock, paura, persino rassegnazione. Poi la telecamera inquadra il muro, dove i corpi decapitati penzolano da alcuni ganci da macellaio, come cappotti appesi in uno spogliatoio».
Valerio Calzolaio |