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Edizione 2012
 
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  Hearing Noir
Le trasformazioni di Radmilla Cody e Dominc Allan
 
 
 10/12/2011 
Si lega ai due temi principali dell’edizione di quest’anno la trasformazione, importante concetto chiave che ricorre in più lavori presentati nella sezione cinema. Trasformazione intesa sia come manipolazione di generi e linguaggi già esistenti, operata dunque dagli eredi di una certa tradizione, sia come inevitabile processo che segue un’apocalisse, ponendo le basi per la rinascita del mondo che verrà.

È incentrato tutto sul presupposto di un cambiamento il documentario di Angela Webb, Hearing Radmilla, che racconta la storia di Radmilla Cody, prima donna per metà di origine Navajo e per metà afroamericana a diventare nel 1997 Miss Navajo Nation. «Io e Angela ci siamo conosciute anni fa» racconta la Cody  «Voleva fare un documentario su di me, interessata dal fatto che fossi diventata la prima miss navajo non di origini navajo. Dopodiché, conoscendoci meglio, mi propose di fare un documentario su tutta la mia vita e i cambiamenti che avevo attraversato». L’attrice, nella vita anche cantante, non alcuna difficoltà a condividere le proprie esperienze con il pubblico: «La mia vita è un libro aperto! Tutti dobbiamo capire e accettare quello che ci capita nella vita, le trasformazioni che subiamo. Per questo penso che immedesimarsi in alcuni aspetti della mia vita possa essere utile al pubblico a capire meglio se stesso».  Del suo particolare titolo, invece, racconta: «Essere miss navajo nation, ovvero rappresentare la tribù di nativi americani più grande al mondo, significa come essere miss America. Bisogna conoscere molto bene la nostra cultura. E’ un’esperienza unica».

A raccontare indirettamente il proprio personaggio è, invece, il regista inglese Dominic Allan. Analogamente a Cyril Tuschi, che in  Khodorkovsky ha voluto tratteggiare le sfaccettature di una personalità unica e affascinante, anche Allan, per la creazione del proprio documentario, parte dalla folgorazione per un personaggio interessante. «Stavo andando dalla Costarica al Nicaragua. Sentii alcuni amici che parlavano di questa persona, un mercenario che aveva rapinato una banca e dipingeva senza essere un pittore. Vidi un suo quadro e mi colpì moltissimo, era pieno di colori. Calvet aveva un passato carico di eventi, era molto paranoico: alle 11 di sera si dava il coprifuoco, metteva trappole davanti la camera da letto. Un anno e mezzo dopo averlo incontrato gli ho proposto il documentario, era arrivato ad un punto della sua vita in cui aveva bisogno di raccontarsi. Era molto onesto, sincero, in modo scioccante».

Allan parla con entusiasmo di come il proprio film abbia inciso sull’esistenza di Calvet: «Le nostre conversazioni hanno smosso qualcosa in lui. Gli ho spiegato cosa avrei voluto fare, gli ho dato il tempo di riflettere e dopo lui mi disse che avrebbe cercato suo figlio. Voleva diventare il padre che non era mai stato, stava cambiando come uomo. Credo che il film sia stato per lui una specie di stampella, un sostegno grazie al quale ha potuto riscattarsi». A riguardo, invece, del senso profondo del suo lavoro, il regista inglese fa riferimento proprio a trasformazioni e identità sociali:  «Il film parla di tutti noi, dell’essere umano e della sua capacità di cambiare. Descrive una trasmutazione. Penso che nella vita acquistiamo tutti delle personalità. Questa è la storia di qualcuno che in modo molto estremo e anche molto chiaro diventa un animale, assume questo personaggio».