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Su Gumshoe e Fail Safe |
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10/12/2011 |
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«Alla fine sono rimasto senza lavoro e ho incontrato Neville Smith, che aveva scritto la sceneggiatura di Gumshoe. Gli ho subito comprato i diritti, prima ancora di proporre ad Albert Finney la parte del protagonista. Neville Smith aveva già scritto due romanzi e lavorato alle sceneggiature di alcuni film televisivi di Ken Loach. In Gumshoe io e Neville rappresentiamo persone che conosciamo ma c’è anche l’immaginario di due uomini che si sono nutriti di cinema americano. Si tratta di un film molto britannico su un personaggio che tenta di vivere una vita normale a Liverpool. La sceneggiatura è molto semplice e istintiva anche se la storia, alla fine, è assai complessa, ma non era l’intrigo che ci interessava. Neville conosceva molto bene Liverpool perché ci aveva vissuto e ha tentato di rappresentarla in modo dettagliato nella sceneggiatura, soprattutto la parte della città dove aveva abitato anche John Lennon. Di norma lascio piena libertà agli sceneggiatori, loro scrivono e io dirigo. Ovviamente discutiamo sulla struttura e i dettagli. Ammiro molto la capacità degli scrittori di inventare una storia. Gumshoe ebbe una buona accoglienza da parte della critica ma non fu un gran successo commerciale. Sul set mi ero sentito molto ignorante, anche perché ero circondato da tecnici di una certa età, molto tradizionali nel loro modo di lavorare ma di grande esperienza. Avevo ancora molto da imparare. Così sono tornato alla televisione, anche perché i soggetti per il cinema che mi furono proposti mi erano parsi banali o noiosi». [Stephen Frears, AAVV, a cura di Stefano Boni e Massimo Quaglia, Edizioni Cineforum 2005, pp. 55-56]
«La televisione americana mi ha poi proposto il progetto di Fail Safe, remake di un famoso film di Sidney Lumet degli anni Sessanta. Si è trattata di una vera e propria sfida perché ho girato in diretta con diciotto telecamere, ma me l’ha chiesto George Clooney e io non sono uno che evita gli ostacoli e le difficoltà. È stata un’impresa folle girare tutto dal vivo e forse qualche rischio avrei potuto evitarlo, ma gli americani sono troppo onesti e sinceri: non riescono proprio a capire davvero la corruzione degli europei». [id. p. 64]
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