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Vedo Nero? Ancora no.
Proposte e riflessioni del cinema italiano per combattere la crisi a colpi di pellicola
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08/12/2011 |
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«Se di fronte alla percezione dell’apocalisse, del crollo, insomma della fine di un tempo e di un’idea di società conviene essere dei “pessimisti propositivi”, allora il cinema italiano può recitare oggi – e in certa misura da qualche anno sta già in questa sintonia – un ruolo di primo piano. L’immaginario cinematografico è stato non solo la coscienza del secolo appena passato, ma quasi sempre l’avanguardia del pensiero “nuovo”: punto d’incontro possibile di linguaggi, esperienze, creatività molto diverse tra loro, il racconto per immagini può offrirci oggi risposte e alternative alla rassegnazione di fronte alla catastrofe. Per questo abbiamo intitolato una parte della nostra riflessione alla “Risposta del cinema italiano”. Perché a questo medium affidiamo – non da solo ma nella speranza che sia tessuto connettivo di molte esperienze consentanee – una speranza etica di riscossa collettiva».
Con queste parole Giorgio Gosetti introduce nel catalogo del 21. Courmayeur Noir in Festival il convegno Vedo nero. La risposta del cinema italiano, coordinato dallo scrittore e giornalista Gaetano Savatteri e realizzato grazie al prezioso sostegno di Cinecittà Luce. L’incontro, ha visto protagonisti al Jardin de l’Ange giornalisti, scrittori e protagonisti del cinema italiano, ha cercato di fare il punto sullo stato del cinema italiano, con particolare riferimento alla crisi attuale, alla stagione di vita politica appena conclusasi e alle speranze future.
Non ha dubbi il regista, sceneggiatore e attore Mimmo Calopresti (Alla Fiat era così, 1990, La fabbrica dei tedeschi, 2008; La seconda volta, 1995), che afferma: «In questo momento il padrone del nostro paese è la crisi. Quando lavoriamo siamo comandati dalla crisi, ovvero dai soldi che non ci sono. O che, se ci sono, creano una situazione di dipendenza nei confronti del produttore, obbligando spesso chi dirige a fare molta attenzione a quello che dice e racconta». Una crisi che non è prettamente economica ma, prima di tutto, politica, culturale e morale, come puntualizza lo sceneggiatore e regista Franco Bernini (Le mani forti, 1997); e che ha avuto campo libero a causa di “20 anni di cloroformio”, come lo scrittore e giornalista Sergio Rizzo definisce il periodo di sonnolenza da cui l’Italia sembra essersi appena risvegliata. «Credo che Silvio Berlusconi e il berlusconismo» afferma Rizzo, cui fa eco Giorgio Arlorio, scrittore, sceneggiatore e regista «siano l’autobiografia di un Paese. Inutile immaginarli come i nostri carcerieri. Noi italiani soffriamo di una sindrome che ci porta sempre a dar la colpa di ciò che non va a qualcun’altro. La responsabilità, però, è innanzitutto nostra».
La maggior parte dei presenti all’incontro è concorde nel sostenere che gli ultimi due decenni siano stati un periodo buio, che ha posto le basi dell’attuale crisi e ha inevitabilmente avuto ripercussioni sul modo in cui ci si approccia al racconto cinematografico tra censure di regime e autocensure di convenienza. Secondo Nicola Giuliano, responsabile della Indigo Film (Il divo), oggi si può parlare a tutti gli effetti di analfabetismo audiovisivo, cui ha contribuito in modo considerevole il degrado della televisione, specie di quella pubblica. Secondo Giuliano, le conseguenze di questo fenomeno sono riscontrabili soprattutto nei giovani: «Insegno al CSC (centro sperimentale di cinematografia), che rappresenta il luogo di formazione di una piccola élite culturale. Eppure, anche tra i miei studenti, nessuno va al cinema se non a vedere quei film che tutti vedono. In pochissimi conoscono il recente La kriptonite nella borsa di Ivan Controneo o autori come Michelangelo Frammartino; tutti hanno però visto Qualunquemente». Questa situazione è aggravata dalle difficoltà che si hanno nel produrre cinema di genere: «Io vado pazzo per il cinema di genere» afferma sempre Giuliano «Quando ho prodotto La doppia ora, tuttavia, ho percepito una assoluta diffidenza da parte di molti colleghi, come se stessi conducendo un’operazione estranea alla nostra tradizione. Creare una sceneggiatura di genere, inoltre, significa sforzarsi di far quadrare tutti i dettagli all’interno della storia, cosa non facile; non a caso, di 30 sceneggiature che mi arrivano alla settimana, ce ne sono pochissime di genere, e quelle poche sono mal strutturate».
Ma è proprio indispensabile distinguere un cinema di genere da uno mainstream? Operare rigide classificazioni, forse più utili alla critica che non alla produzione? Non lo pensano affatto la regista Wilma Labate (Signorina Effe, 2007; Genova per noi, 2001; Un altro mondo è possibile, 2001; La mia generazione, 1996) e Mimmo Calopresti. La prima confessa di essersi ritirata da un cinema “impegnato” per paura che le fosse affibbiata un marchio troppo soffocante; il secondo, invece, tende a livellare le differenze tra categorie: «Non ci sono più i generi, c’è il cinema. Il cinema che continua ad avere una sua vita nonostante la crisi, continua a dare una possibilità di raccontare il mondo. La televisione ha un impatto molto potente sulla realtà ma non ha mai perdonato al cinema di avere qualcosa in più, di riuscire a raccontare la trasformazione, il futuro, l’irrealtà. Il cinema possiede strumenti e potenzialità unici».
Sulla base di queste premesse, possono, dunque, la cinematografia italiana e i suoi protagonisti, portare alla riscossa collettiva di cui parla Gosetti nella sua introduzione? Da quale punto ripartire? Innanzitutto da una maggiore coesione tra chi produce il cinema, come afferma Giorgio Arlorio: «Quello di cui oggi si ha bisogno per tornare a sognare la ripresa è una più forte comunicazione tra la gente che fa cinema. Da soli ci si intristisce, e si annoia sia il cinema che il Paese». E in secondo luogo, bisogna tornare a scegliere storie che siano in grado di offrire chiavi interpretative della realtà. Dove trovarle, non è difficile. Basterebbe, come suggerisce il direttore del Festival, rovistare tra le indagini dei palazzi di giustizia; oppure, seguendo il suggerimento di Aldo Giannuli, scrittore e ricercatore presso la facoltà di Scienze Politiche dell'Università degli Studi di Milano e autore del libro 2012 La grande crisi e del recente Il noto servizio si potrebbe scardinare la cortina di silenzio che circonda alcuni pezzi di storia nazionale, che rischiano di sbiadire per sempre se non ripescati in tempo. Soprattutto, però, il più grande apporto al cinema contemporaneo lo potranno fornire gli spettatori e il loro bisogno di orientarsi, partendo da una maggiore comprensione del più recente passato, nella giungla di cambiamenti che l’Europa, in particolar modo, sta vivendo. «Il compito delle persone di cultura che si occupano di audiovisivo è di aiutare a tirar fuori nei propri lavori questo bisogno di verità della gente. Questo Paese non si è mai liberato di certe ombre e ha bisogno di verità». Le parole di Sergio Rizzo sono quanto mai azzeccate per inquadrare la missione del cinema contemporaneo: fungere da strumento di analisi e riflessione, utilizzando le proprie peculiarità linguistiche, al di là di etichette o chiusure pregiudiziali, al servizio degli spettatori. Con un occhio di riguardo per gli spettatori più giovani.
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