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Il tema dell'anno: Vedo Nero. Un'apocalisse ci salverà? |
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03/12/2011 |
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tratto da Dal cinema alla letteratura passando per le Alpi di Marina Fabbri, Catalogo del 21. Courmayeur Noir in Festival, pp 44-45.
La rappresentazione del Male, del lato oscuro dell’individuo e la fotografia del disagio sociale sono da sempre caratteristica precipua del Noir come genere e come tradizione sia cinematografica che letteraria. Ma sempre di più oggi non è necessario fare riferimento agli stretti canoni del giallo e del thriller per raccontare la paura e il disagio, i confini di questo racconto sono ormai ben più ampi e abbracciano anche la riflessione sulla profonda trasformazione del mondo che ci circonda. Allora, è parso utile verificare sul piano dell’immaginario, sia quello cinematografico che quello letterario, oltre che sul piano dell’analisi socio-politico-economica, come questa nuova sensibilità di fronte alla “nuova apocalisse” in atto venga registrata e in quali forme, raccogliendo una serie di artisti ed esperti a Courmayeur per discutere su questo tema.
Il centenario della nascita di Giorgio Scerbanenco Siamo innanzitutto partiti da noi stessi, cioè dal noir come genere letterario, rendendo un omaggio doveroso al centenario della nascita del nostro nume tutelare, lo scrittore ucraino-milanese Giorgio Scerbanenco, che nel 1963 pubblicò un singolare romanzo fantascientifico, Il cavallo venduto, ambientato in una spettrale Milano post apocalisse, su cui trovate un approfondimento di Giuseppe Lippi nelle pagine del catalogo. Scerbanenco ci aiuta anche a ricordare gli anni Sessanta, che furono il crogiolo della prima grande paura apocalittica della nostra civiltà post-moderna, con le sue più o meno fondate paranoie sul conflitto nucleare imminente, generate dal trauma di Hiroshima e nutrite dal clima della Guerra Fredda.
L'apocalisse a Courmayeur di Fratello Emman Quel clima è appunto l’inevitabile cornice del singolare fatto di cronaca avvenuto a Courmayeur nel luglio del 1960, l’attesa della fine del mondo sul Monte Bianco da parte di una setta di famiglie milanesi e torinesi guidate da un improbabile “profeta”, Fratello Emman, al secolo il pediatra Elia Bianca, un incredibile avvenimento che ebbe risonanza in tutto il mondo e di cui esistono testimonianze d’eccezione come quella di Dino Buzzati che ne scrisse sul «Corriere della Sera», o quella di Gian Antonio Stella che ne ha dato conto nel suo primo romanzo, Il maestro magro (2005), trasformando l’episodio in un’impietosa ed efficace fotografia della povera provincia italiana. Nelle pagine del catalogo abbiamo ripubblicato quel capitolo per intero. Come raccontano diffusamente Luisa Aureli Bergomi ed Eligio Milano del Centro di Studi e Promozione Culturale Alessandro Milano della Scuola di Dolonne a Courmayeur, in una pubblicazione realizzata in occasione del Festival e dedicata interamente alla vicenda dell’Apocalisse del Monte Bianco, la setta di Emman trovò rifugio nel Pavillon del Mont Frety per rispettare le indicazioni del profeta Isaia che, nel IV libro, parla di un «padiglione magico che servirà per proteggere dal caldo e dalle tempeste». Secondo la visione del pediatra-profeta, il 14 luglio 1960, in seguito a una devastante esplosione nucleare avrebbe avuto luogo un nuovo diluvio universale e le cime regine del Massiccio del Bianco avrebbero formato una diga, argine dell’immenso lago dalle cui acque sarebbero emerse solo le terre più alte. Prima fra tutte, appunto, la zona del Pavillon. «E così - ricordano Bergomi e Milano - a partire pare dall’estate del ‘56, Fratello Emman affittò il rifugio omonimo a quota 2.173 metri, a metà percorso della Funivia dei Ghiacciai, tra la stazione di partenza nel villaggio di La Palud e lo storico Torino, base delle imprese di tanti grandi dell’alpinismo. Ne fece la sede ufficiale per i fedeli del nuovo verbo e qui trascorse alcune estati di…“villeggiatura preparatoria” con una prima avanguardia di eletti». Bergomi e Milano scrivono che «una veloce ricognizione fra gli over cinquanta del paese permette di ricostruire ricordi e aneddoti simpatici e curiosi, che restituiscono l’atmosfera di una Courmayeur tutt’altro che preoccupata, anzi piuttosto divertita dalle profezie di “quelli del Pavillon”, considerati in generale: “Brava gente un po’ strana”». Il racconto dei testimoni di Courmayeur, raccolto dagli autori, si tinge inevitabilmente di commedia, pur sempre nera: «Il falegname, titolare anche dell’agenzia di pompe funebri locale, quando, dopo aver dato l’incarico di sigillare le porte e le finestre del rifugio Pavillon in vista del diluvio, gli fu chiesto di provvedere anche alla realizzazione di alcune barche, così rispose: “Non ne sono capace, ma se volete posso fornirvi delle bare che comunque galleggino!”. O ancora una signora (allora ragazza), che lavorava al bar delle Funivie, utilizzate quotidianamente dagli adepti della setta per scendere in paese e per trasportare in quota le provviste da accumulare per il day after, ricorda quando un fratello della “Comunità” regalò a diversi operai della società una cravatta nera, “perché voi che lavorate qui sarete sicuramente tra i salvati - aveva spiegato - ma dovete imparare a vestirvi adeguatamente per il nuovo mondo”». «Era una Courmayeur sicuramente poco coinvolta dalla fine del mondo - continuano gli autori - più concentrata su una delle stagioni turistiche dell’epoca d’oro della località, che pochi giorni dopo la data fatidica, dal 19 luglio, avrebbe ospitato ancora una volta all’Hotel Royal il presidente Gronchi e la sua famiglia per le loro vacanze estive. Era un paese che proprio in quegli anni viveva e raccoglieva la sfida del costruendo Tunnel del Monte Bianco, che sarebbe stato inaugurato solo cinque anni dopo dai presidenti italiano, Giuseppe Saragat, e francese, Charles De Gaulle».
Il convegno Al di là del sapore folkloristico che caratterizza la vicenda dell’apocalisse alpina (come la chiama efficacemente Stella), oggi le figure dei suoi ridicoli protagonisti non ci sembrano tanto lontane da quelle di certa parte consistente dell’odierna società italiana che, nel corso dell’ultimo ventennio, si è lasciata sedurre da “profeti” di diverso tenore ma di simile inaffidabilità, mentre veniva consolidandosi un capitalismo poggiato su pilastri di sabbia, se si passa il paragone con la tecnica costruttiva preferita dalla mafia. Quello stesso capitalismo che oggi mostra tutte le sue inquietanti crepe, e il cui precario equilibrio con il terrore che incute l’imminenza del suo crollo sono oggi sotto gli occhi di tutti. È su questa nuova apocalisse che abbiamo chiamato scrittori e analisti a dibattere. Essi metteranno in campo le loro conoscenze e le loro esperienze artistiche per illuminare con la luce della ragione, la stessa che permette all’uomo di costruire modelli analitici come di immaginare storie sulla carta o su pellicola, il buio di questi anni incerti che ci attendono. Guidati da un “fanatico” di complotti come il giornalista Ranieri Polese, ascolteremo analisti come l’economista Giulio Sapelli e lo studioso dell’immagine audiovisiva Gianni Canova, scrittori come Tullio Avoledo e Davide Dileo, di cui verrà presentato Un buon posto per morire, un thriller incentrato proprio su una imminente apocalisse; Antonio Scurati, che alla «sensazione storica di vivere la fine dei tempi» ha dedicato il suo ultimo romanzo La seconda mezzanotte o Tommaso Pincio, per il quale l’apocalisse può «essere considerata un ottimo rimedio per la paura dell’ignoto e un tranquillante dello spirito in genere». Accanto a loro, esperti come l’ambientalista e critico letterario Valerio Calzolaio e il fisico nucleare e giallista Federico Tavola (presente a Courmayeur con Che bella vita), rifletteranno sui diversi volti di questa nostra contemporanea apocalisse permanente e discuteranno sulle eventuali vie di uscita verso un possibile e sostenibile cambiamento. |
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