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Carlo Lucarelli intervista Michael Connelly |
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08/12/2010 |
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[Pubblicato nel catalogo del Courmayeur Noir in Festival 2010]
La prima è una domanda molto scontata, ma me la fanno anche a me talmente tante volte che vorrei trovare spunti per una risposta nuova: perché ha scelto di scrivere noir (o thriller, come lo vogliamo chiamare). Ma poi, è stata davvero una scelta?
Ho iniziato a scrivere ‘gialli’ perché ero un lettore appassionato di questo genere. All’età di 16 anni ho assistito involontariamente a una rapina in cui spararono a un uomo e ricordo di aver trascorso la notte negli uffici della polizia, interrogato dagli inquirenti, per raccontare ciò che avevo visto. Rimasi affascinato dal mondo dei detective e da quel momento iniziai a leggere libri ‘gialli’. Ormai ero catturato. Qualche anno dopo lessi anche i libri di Raymond Chandler, e questo mi ha influenzato profondamente: decisi di diventare scrittore, in particolare di thriller.
Lo scrittore svizzero Friedrich Glauser diceva che il giallo è un “ottimo modo per dire cose sensate”. Quali sono le “cose sensate” che raccontano i romanzi di Connelly?
Il punto di vista dei miei personaggi si basa sulle loro esperienze di vita. Sono tutti un po’ stanchi del mondo e questo atteggiamento potrebbe essere scambiato per saggezza. Non voglio essere didattico, cerco sempre di evitarlo. Ma sicuramente qualche volta capita anche ai miei personaggi di fare osservazioni degne di nota, a Harry in particolare. Secondo lui, contano tutti, oppure nessuno. È il suo codice. E credo che ci sia una buona dose di saggezza in questo.
Tra uno scrittore e il suo personaggio seriale si sviluppa spesso un rapporto molto stretto, che a volte diventa anche amore-odio. Qual è il suo rapporto con Harry Bosch? Padre e figlio? Amico? Nemico?
Bosch mi affascina e mi ispira, ma non nutro per lui un sentimento di amore-odio. Mi ritengo fortunato a voler ancora scrivere di lui, dopo 20 anni, e soprattutto di avere ancora tanto da dire rispetto a questo personaggio.
Anche i personaggi, come gli scrittori, si evolvono, e a volte invecchiano. Se si stancasse di Bosch cosa farebbe? Lo dimenticherebbe? Lo lascerebbe invecchiare nel silenzio? Riuscirebbe a ucciderlo? Pochi scrittori sono riusciti a farlo…
La serie di Bosch è come un tunnel attraverso il quale quest’uomo viaggia per raggiungere la luce. Non riesco a pensare di doverlo uccidere. Penso che prima o poi giungerà a quella luce, che non so cosa rappresenti: potrebbe essere una relazione con una donna, oppure vedere sua figlia che diventa una donna. So solo che deve esserci qualcosa di buono che lo attende, altrimenti nulla avrebbe senso. E questo non è certo il messaggio che desidero trasmettere.
A volte penso che c’è una differenza tra gli scrittori che raccontano la metà oscura della vita, come noi, e gli altri. Non è la suspence, non è il senso del mistero e neanche le storie che raccontiamo. Noi siamo cattivi. È così?
È difficile che qualcuno ammetta di essere cattivo. È molto più facile dire che sta cercando di essere buono. Gli scrittori che, come me, amano questo genere, in fondo indagano su stessi, sul loro lato oscuro, su un elemento che potrebbe indicare che tutto sommato non sono buoni, che il loro cuore è freddo.
Quanto sono importanti la psicologia dei personaggi e l’atmosfera rispetto alla trama?
Tutto è importante, ma ci sono cose più importanti di altre. Questi libri si basano per lo più sulla personalità del protagonista, e quindi la sua psicologia è rilevante. Anche l’atmosfera è un fattore importante: è un’estensione del personaggio, le cui sfumature psicologiche contribuiscono a creare l’atmosfera della storia.
Come nascono i suoi romanzi dal punto di vista della struttura? Costruisce prima lo schema come in una sinfonia o improvvisa come in uno standard jazz?
Mi piace improvvisare all’interno di una struttura libera. Quando inizio devo sempre sapere qual è l’inizio e come sarà la fine. Quel che accade nel mentre, posso anche improvvisarlo.
Come giornalista di nera e criminologo ha avuto esperienza della metà oscura della società. Raccontare certe storie è solo “raccontare storie” o può dare qualche speranza di poter cambiare il mondo?
Saremmo degli stupidi se non avessimo aspirazioni più alte. Come narratore la mia attenzione è rivolta alla trama, alla struttura, all’energia della storia, ai suoi indizi; ma a parte questo, mi piace l’idea che un libro funzioni un po’ come uno specchio, per mostrare uno scorcio di realtà e sollevare qualche domanda sul tipo di società che siamo e sulla direzione in cui ci stiamo spingendo.
È anche un lettore di genere? Quali autori legge con più piacere?
Per me è sempre più difficile leggere storie del crimine proprio perché questo è il mio mestiere. Ogni tanto però leggo qualcosa. Al momento i miei scrittori preferiti sono George D. Pelecanos e Denise Mina. Sono due autori molto diversi fra loro, ma i loro temi sono di grande impatto e diventano lo specchio di cui parlavo prima.
Un editore mi ha detto che il più bel libro di uno scrittore dovrebbe essere l’ultimo, altrimenti avrebbe fatto un passo indietro. Uno scrittore, invece, mi ha detto che il più bel libro dovrebbe essere il prossimo. Ma c’è sempre uno nella back list a cui siamo molto affezionati. Insomma, quale dei libri di Michael Connelly è il preferito da Michael Connelly?
Forse il mio quarto libro, L’ombra del coyote. Non credo sia il migliore, ma l’anno in cui l’ho scritto è stato il primo in cui mi sono dedicato completamente alla scrittura. Non dovevo più dividere la mia attenzione fra un romanzo e un altro lavoro. Quel libro ha ricevuto tutta la mia attenzione e lo ricordo con affetto. Ero felice di essere finalmente uno scrittore a tempo pieno.
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