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Carlos: un riparatore di torti, in versione rivoluzionaria.
Intervista a Daniel Leconte
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11/12/2010 |
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Giornalista, documentarista, produttore (ha creato le società Doc en stock e Film en stock), animatore di una trasmissione (Thema - De quoi j'me mêle) in onda una volta al mese su Arte, Daniel Leconte ha diretto e presentato a Cannes nel 2008, C’est dur d'être aimé par des cons, documentario sulla nota vicenda delle dodici caricature danesi che scatenarono la collera dei musulmani in ogni parte del mondo. È autore di più di cinquanta reportage, e ha prodotto oltre quattrocento documentari e diversi film di finzione, tra cui Carlos, diretto da Olivier Assayas, e concentrato su una delle figure simbolo del terrorismo degli anni passati. «Ho pensato a Carlos perché è una persona che ha segnato una “traccia” molto importante negli anni Settanta e Ottanta. Roland Barthes avrebbe potuto dire di lui che è una mitologia di quegli anni. È la mitologia del riparatore di torti, versione rivoluzionaria. È una sorta di incarnazione delle nostre divagazioni adolescenziali. Parlare di lui serve a cercare di comprendere come si è arrivati a Bin Laden, cioè come si è arrivati a un mondo dove il terrorismo si è banalizzato per diventare solo un altro dei modi attraverso i quali fare una guerra». In che cosa si differenzia l’attività terroristica di Carlos da quella dei partiti rivoluzionari europei degli anni Settanta o dal nuovo terrorismo di questi anni? Con Carlos il terrorismo si è professionalizzato e internazionalizzato. I partiti rivoluzionari europei erano composti da terroristi amatoriali, sicuramente pericolosi, ma in ogni caso amatoriali. Carlos ha voluto fare della sua attività una professione permanente. Il suo gruppo è diventato una agenzia di mercenari della rivoluzione, che ha finito poi per vendere i propri sevizi al migliore offerente. Il rapporto tra Carlos e il nuovo terrorismo internazionale è invece solo nell’internazionalismo. Carlos ha federato gli “antisionisti” di tutti i paesi, palestinesi, arabi o europei. Un po’ come Bin Laden che oggi fa appello agli islamici di tutto il pianeta per commettere azioni terroristiche. Con la differenza che Bin Laden agisce a un livello e su una scala molto più grande. C’è l’”Umma”, la comunità dei credenti. Seguendo le raccomandazioni di Bin Laden, i suoi partigiani seguono le raccomandazioni di Dio stesso. Da questo punto di vista è molto differente da Carlos. Si può in qualche modo paragonare la sua figura a quella di un altro rivoluzionario cardine del secolo scorso, il Che? Punti in comune tra i due uomini ce ne sono sicuramente. In particolare questa capacità di far credere che sono entrambi al servizio dei “dannati della terra”. E, inoltre, questa capacità che avevano di mettersi in scena, e di “comunicare” con un linguaggio moderno anche attraverso il look. Ma c’è una reale differenza. E cioè che il Che incarna la lotta di massa contro l’imperialismo, Carlos ha invece scelto la via del terrorismo internazionale. Ci sono state relazioni tra Carlos e l’Italia? Credo che se ce ne sono state, sono state molto deboli. Per una semplice ragione: Carlos reclutava principalmente nei Paesi arabi e tra i tedeschi. Il suo cammino si è incrociato con i francesi perché la Francia era attiva, militarmente e diplomaticamente, nel Medio Oriente, in particolare in Libano. E soprattutto perché Carlos aveva base in Francia e il suo primo gesto con forte rilevanza si è svolto in Francia, la storia di Rue Toullier. Ha avuto un ruolo nella strage della stazione di Bologna? Per quanto ne so io, no. Quello che so è che nel periodo dell’attività di Carlos del quale abbiamo parlato nel film, l’Italia non è mai stata al centro delle preoccupazioni di Carlos. D’altronde i rivoluzionari italiani non avevano né le sue stesse preoccupazioni né i suoi stessi obiettivi. Il film ha una versione televisiva e una per la sala cinematografica. Avete anche pensato al diverso tipo di spettatori a cui sono rivolti i due film? No! Per una ragione semplice. Olivier Assayas non ha mai pensato al pubblico quando si è trattato di sapere cosa avrebbe fatto per il cinema o per la televisione. Ha pensato al film che andava meglio per il formato che gli era stato richiesto. E se comunque ci ha pensato, non me l’ha detto. Parlando di un personaggio così complesso, c’è posto, nello sguardo dell’autore, per una posizione morale o bisogna essere il più freddi possibile? Io ho pensato che bisognava attenersi, il più possibile, ai fatti. Che non è la stessa cosa dell’essere freddi. Per il resto ho fiducia nella intelligenza del pubblico. Ma lo so che, mostrando la violenza al servizio di una causa, si corre il rischio di abolire la ragione, di annientare lo spirito critico e di suscitare delle emulazioni. In effetti al cinema la violenza è sempre astratta. E nel modo con il quale Assayas ha deciso di trattare Carlos, dal punto di vista del terrorista e non delle vittime, c’è il rischio che si perda “l’umanità” nel corso del racconto. Per evitare questo scoglio, bisogna avere questa idea in testa durante tutto il film. E di prevedere ... un altro film per trattare l’argomento dal punto di vista delle vittime. Ci sono ancora molte cose da scoprire su questo periodo? Sì, naturalmente. In particolare negli archivi dell’ex Unione Sovietica. Sapere quale è stato il ruolo di Mosca in tutto questo. Oggi che conosciamo il ruolo della Stasi abbiamo voglia di sapere fino a che punto l’Unione Sovietica ha manovrato in questi affari. Abbiamo voglia di sapere se Andropov è stato veramente il mandante dell’assassinio di Sadat. Se il KGB è stato il mandante del tentativo di omicidio di Giovanni Paolo II. Se ... Quale è stata la reazione di Carlos al film? Non ho parlato direttamente con lui. Ha detto tutto il male possibile prima di averlo visto. Dopo che l’ha visto non ha più detto nulla. È bizzarro, ma è così. Ma questo è realmente sorprendente da parte di un uomo cresciuto nell’ideologia e per il quale il reale è secondario?
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