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  Lenzi e Borgese, supereroi a Courmayeur  
 
 11/12/2010 
un articolo di Francesco Bonerba

Se nella XVIII edizione del Courmayeur Noir in Festival aveva rispolverato il genere dello spy-movie, quest’anno Marco Giusti, onnivoro e appassionato divoratore di cinema, instancabile scopritore di preziose opere filmiche appannate dall’oblio degli anni, apre un altro cassetto segreto della filmografia nostrana, quello dei Supereroi all’italiana.
Lo fa, oltre che attraverso i cinque film della retrospettiva, Kriminal (1966), Flashman (1967), SuperArgo contro Diabolikus (1967), Tre superman a Tokyo (1968), Satanik (1968), grazie alla presenza di due ospiti d’eccezione: Salvatore Borgese, interprete di tutti i film con protagonisti i 'Tre Superman', e Umberto Lenzi, regista di Kattivik e tra i più celebri autori del genere poliziesco made in Italy.

Apparsi per la prima volta su grande schermo negli anni Sessanta, sulla scia dei popolarissimi fumetti delle sorelle Giussani o di quelli nati dall’accoppiata Bunker/Magnus, i supereroi all’italiana si imposero subito all’attenzione del pubblico con le loro incredibili avventure: viaggi esotici, femme fatale, criminali dal fascino magnetico, intrighi internazionali, superpoteri e supercattivi. Come afferma Lenzi, il cinema dei supereroi, connotato da Giusti come un pastiche di generi e influenze, era “vero”, fatto di personaggi complessi, realmente malvagi e ben differenti dalle “figurine del presepio” del panorama televisivo contemporaneo.
Un cinema, dunque, autentico, come lo erano i suoi protagonisti: Borgese, ad esempio, che in Tre Supermen a Tokyo interpreta un anomalo supereroe balbuziente e si esibisce assieme ai suoi compagni in rocambolesche acrobazie, nasce come stuntman; al pari dei luchadores spagnoli che invadono il cinema latino-americano dell’epoca (come il lottatore El Santo, trasformatosi nel supereroe Argos), Borgese non doveva fingere per essere “super”.

Sarà forse la normalità di questi personaggi, privi di poteri straordinari ma carichi di astuzia e fascino (si pensi al Glenn Saxson di Kriminal) ad aver reso le avventure dei supereroi tanto celebri in quegli anni, con la complicità di un cinema che, spiega Lenzi, era pensato in grande: non solo budget considerevoli (la Titus, pur di battere sul tempo De Laurentiis che progettava con Mario Bava un film su Diabolik, non badò a spese per produrre Kattivik), ma anche una distribuzione rivolta ai mercati esteri che poteva contare su attori internazionali e un’ampia serie di location suggestive.

Nonostante la proliferazione quasi immediata delle parodie come Totò Diabolicus e I superdiabolici abbia dettato la fine del genere corrodendone la credibilità, racconta Giusti, a distanza di oltre cinquant’anni i film dei supereroi all’italiana sono diventati autentici Cult, protagonisti di una rivalutazione sostenuta in particolar modo, sembra assurdo, dall’estero (è stato Quentin Tarantino a farci riscoprire molti gioielli dimenticati del cinema italiano degli ultimi cinquant’anni). Una seconda vita, insomma, che travalica i confini del tempo con la stessa facilità con cui i supereroi degli anni Sessanta migravano da una forma espressiva all’altra.

Non è un caso, perciò, che Lenzi si presenti al Noir in Festival non solo in veste di regista ma anche in quella di scrittore, confermando la duttilità delle idee e la bellezza della contaminazione tra forme creative. È un parto della sua immaginazione, infatti, Bruno Astolfi, protagonista dei libri Delitti a Cinecittà (2008), Terrore ad Harlem (2009) e Morte al Cinevillaggio (di prossima pubblicazione). Sebbene il suo personaggio, un commissario che dopo essere stato espulso dall’arma per il suo aperto antifascismo si ritrova a lavorare nella Cinecittà degli anni Quaranta, abbia numerose componenti autobiografiche, spiega Lenzi, il suo obiettivo era di recuperare, attraverso fatti e luoghi storici, un’epoca poco rappresentata ma dal grande fascino, nella quale si aggirano indisturbati i camei di personaggi come Totò, Walter Chiari e Ugo Tognazzi.