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Descrivere le emozioni |
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10/12/2010 |
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«Il mio interesse è sulla storia americana. Un periodo, tra il 1926 al 2006, che trasformo in una sorta di set nel quale faccio muovere i miei personaggi. Ogni Stato richiede le proprie parole, le proprie atmosfere, anche la propria religione modifica il modo in cui i personaggi si comportano. I miei romanzi quindi, raccontano di un uomo, che vive in un ambiente il più aderente possibile al reale, che si trova all’interno di una situazione straordinaria. Il mio prossimo libro parlerà del sistema di detenzione minorile, e poi, nel 2013, sarà la volta di una storia sul Vietnam». È Roger Jon Ellory, che parla. Ed anche Vendetta, il libro che ha presentato oggi, si svolge in America, a New Orleans, precisamente, dove una ragazzina diciannovenne, figlia del Governatore della Louisiana, scompare misteriosamente, lasciando dietro di se una traccia di sangue. «Quando scrivo non mi creo una struttura rigida. Scrivere per me è in parte seguire una architettura che mi sono costruito, e in parte muovermi come fossi all’interno di una jam session. In fondo non mi importa molto che la gente si ricordi il mio nome, o la trama della storia. Quello che mi interessa sono le emozioni che la mia scrittura suscita. Mi piacciono i libri che riescono ad avere un impatto emotivo forte». «Sostanzialmente esistono tre tipi di romanzi: quelli nei quali la trama è fondamentale, e che quando si incominciano a leggere non si vede l’ora di finirli. Quelli che fanno maggiore attenzione alla forma, con una bella prosa e che ti costringono a fermarti a pensare a quello che hai appena letto. E poi ci sono i capolavori, ossia i libri che da un lato ti costringono a correre, perché devi scoprire come vanno a finire, ma dall’altro ti costringono a riflettere sulle frasi. Questi libri sono rarissimi, ma è il modello verso il quale aspiro». I libri di Roger Jon Ellory sono visivi, ma per il momento non sono stati ancora trasposti sullo schermo: «mi ha scritto, per A Quiet Belief in Angels (La voce degli angeli), Olivier Dahan, il regista de La vie en Rose, dicendosi interessato. Questo a maggio 2009. Mi ha invitato a Parigi, dove sono andato, mi hanno portato in uno studio pieno di fumo e di Coca Cola, ed erano tutti eccitati perché era appena arrivata la colonna sonora per film fatta da Bob Dylan. Dopo averla ascoltata per quattro ore, mi ha portato a mangiare in un ristorante libanese. Gli ho chiesto di parlare del progetto, e lui mi ha detto che ne avremmo parlato il giorno dopo. La mattina sono tornato allo studio. Olivier mi ha preso e portato in giro per Parigi, facendomi bere tantissimo caffè, parlandomi degli Yardbirds, di Apocalypse Now e mostrandomi tutti i ponti sulla Senna, la Torre Eiffel e tutto il resto della Parigi turistica. Ma del progetto nulla. Il terzo giorno, tornato allo studio, gli ho chiesto nuovamente di parlare del film, e lui mi ha detto che non aveva senso parlarne ancora, e che era chiaro che la sceneggiatura la avrei scritta da solo. Sono tornato a casa, e ho iniziato a lavorarci. È stato molto interessante, perché scrivere per il cinema ti costringe a cambiare completamente stile. Ho spedito la sceneggiatura, mi hanno detto che andava bene e che forse era un po’ lunga, e poi non ne ho saputo più nulla. Per mesi. Il giorno di Natale, poi, ho ricevuto una mail da Olivier, che mi diceva “tanti auguri”. E poi niente ancora. Adesso credo che la sceneggiatura l’abbiano mandata a Clint Eastwood, forse è anche nelle mani della Dreamworks (ma non capisco come). Penso comunque che il modo migliore di lavorare con “quelli del cinema” lo abbia capito Michael Connelly. Secondo lui bisogna andare di notte in un parco, costruire una staccionata alta due metri. Poi chiamarli e lanciargli la sceneggiatura oltre la staccionata. Prendere la valigia con i soldi che loro ti lanciano dalla tua parte, e poi non vederli mai più!». |
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