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  La conferenza stampa di James Cameron a Londra  
 
 11/12/2009 
Il Courmayeur Noir in Festival, grazie a un accordo con la Twentieth Century Fox, ha avuto il privilegio di poter seguire in collegamento con Londra la conferenza stampa della prima mondiale di Avatar. Queste alcune delle dichiarazioni di James Cameron.

«Ho speso un sacco di soldi e di energie per inventare il mondo e i personaggi del pianeta Pandora. Allora mi dico che questo può essere un punto di partenza e che da Avatar può nascere una saga come accadde per Star Wars. Non c’è nessuna sceneggiatura nel cassetto, ma se il film andrà davvero bene, si potrebbe andare avanti».

«Un sequel realistico di questa storia vedrebbe il protagonista Jake in poltrona che chiede una birra alla sua donna e si sente rispondere 'Vattela a prendere da solo'. Così va nella vita reale, ma nella saga che potremmo ideare ci dovrà essere ancora spazio per il sogno e la meraviglia. Magari sarà un franchising; vediamo intanto se il pubblico si appassiona ai miei Na’vi, le meravigliose creature blu che abitano l’incontaminato pianeta Pandora».

«A me interessa sempre un approccio emozionale e intuitivo, diffido della pedagogia. Volevo che lo spettatore sentisse la forza e al contempo la fragilità di questa natura fantastica e mi dicevo sempre che stavo facendo un film d’avventura, non un documentario. In passato la fantascienza ha battuto più volte la via del cinema a tesi, ma io credo in un cinema visuale, di grande immediatezza e mi interessava di più ricongiungermi ai pionieri del genere, alla 'Space Opera', allo spirito di una grande saga come quella di Lucas. Ho scelto il blu come colore dominante e luminescente perché giravamo alla Haway e l’ambiente ci ha certamente influenzati».

«E’ essenziale saper conservare la purezza e l’apertura mentale dell’infanzia e Neytiri abita qualcosa di simile all’infanzia del mondo. Questo sentimento ci riguarda tutti, specie nell’epoca di internet in cui la comunicazione con quelli che pensano come noi è sempre più facile nonostante le distanze. Si finisce a vivere in una bolla virtuale e autoreferenziale in cui circolano solo quelli che ci assomigliano. Invece il sale della vita è la differenza, il saper vedere con gli occhi degli altri. E mostrare questa strada è il compito degli artisti. Altrimenti non si va da nessuna parte».

«Insieme ai glottologi dell’università di Los Angeles abbiamo individuato una ‘paletta’ di suoni che appartengono ai nativi americani, alle popolazioni indiane, ai boscimani e agli africani. Abbiamo selezionato suoni e sonorità per poi costruire una vera e propria lingua che gli attori hanno imparato poco a poco».

«Non farò mai più film se non in 3-D perché si tratta di una tecnologia ormai matura, come il suono digitale che dà qualcosa in più rispetto alla vecchia stereofonia. Noi abbiamo cercato di maneggiare questo strumento con misura, senza invadere lo schermo con effetti fine a se stessi. Per noi il 3-D è una finestra aperta su un mondo da scoprire, un universo digitale che accentua la nostra percezione. Ma dal punto di vista pratico, la versione del film tradizionale non tradirà le attese con colori, suoni ed emozioni più che validi, come al tempo di Titanic. Alla fine è una scelta del consumatore: con il 3-D si spende un po’di più, come quando si compra un televisore al plasma per vedere meglio a casa, ma il cinema non cambia solo per questo».