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  Mario, Cuba e la nostalgia. La parola a Leonardo Padura Fuentes  
 
 12/12/2009 
Ieri sera è stata la volta del Raymond Chandler Award consegnato da Gabriele Salvatores allo scrittore cubano Leonardo Padura Fuentes. Sempre ieri, ma nella mattinata, il creatore del personaggio letterario Mario Conde, ha incontrato il pubblico di Courmayeur al Centro Congressi con la complicità di Valerio Calzolaio e Sebastiano Triulzi.
Di seguito riportiamo alcuni dei pensieri di Padura Fuentes su Mario Conde, Cuba, il ruolo della letteratura, i rapporti con gli Stati Uniti e sul sentimento della nostalgia, raccolti da Daniela Basso e Rosa Polacco, curatrici nel catalogo di una lunga intervista allo scrittore cubano.

La pagina dedicata a Leonardo Padura Fuentes

Mario Conde spesso esprime quanto io stesso sento sul mio rapporto con la vita, con lo spirito e con la società. La differenza sta tuttavia nel fatto che lui lo fa dalla sua prospettiva di personaggio letterario, e quella prospettiva tende a essere molto drammatica, come è proprio di un romanzo. Conde, inoltre, ha un rapporto piuttosto ossessivo con il passato, un rapporto che è anche il mio. Credo che un paese senza passato sia un paese estremamente povero, ma il passato è una somma e una giustapposizione di realtà, in cui non si devono escludere delle verità, con dei fini politici o personali. Sia Conde che io vediamo nel passato il sostrato del presente, le ragioni di come siamo stati e di come siamo, e di perché siamo giunti a una determinata situazione nel presente. In tutte le sue storie, il passato è un peso con il quale deve muoversi e contro il quale lottare. Per me, il passato è anche una fonte di ricerca dell’identità dell’essere cubano, delle sue caratteristiche come essere culturale e come essere storico specifico. Perciò penso che non sia possibile ingabbiare la memoria, né sfrondare il passato: perché la memoria e il passato di un paese non appartengono a una persona, bensì a una nazione, e la nazione sta al di sopra di tutti noi. E laddove si cerca di seppellire il passato, o la memoria, si sentiranno le loro urla, perché hanno una capacità di resistenza che va oltre le generazioni e i bavagli.

Cuba è un paese strano, è come un caleidoscopio, un paese con troppe realtà sovrapposte; dunque un paese che non ha una sola realtà, ma tante realtà diverse, talvolta persino antagoniste; spesso l’apparente immobilismo di Cuba è visto dall’Europa come un freno, mentre da molte prospettive latinoamericane appare come un simbolo di resistenza e di fermezza. Senz’altro, entrambe le prospettive hanno ragione, a seconda dei loro interessi e delle loro posizioni politiche. Ma ricordate che ho detto “apparente immobilismo”, perché anche questo va valutato: Cuba si muove o è ferma? Per come la vedo io, Cuba si muove e non si muove al contempo. Oggi come oggi, per esempio, della Cuba dell’anno precedente al 1989 rimane pressoché nulla: ma quel poco che rimane è decisivo, poiché coinvolge il sistema politico creato da Fidel ed ereditato da Raúl. Ma dagli anni Novanta fino a oggi la società cubana ha subito infinite trasformazioni, e la società attuale ha poco a che fare con la società che Fidel voleva creare. A Cuba c’è corruzione amministrativa, prostituzione, mercato nero, distribuzione diseguale della ricchezza, etc.; ed esistono pure, tra le tante altre cose diverse, due monete, lavoratori indipendenti, un’apertura nell’ambito commerciale e un’accettazione dell’arte che prima non esistevano. Ed esiste una gioventù che spesso è indifferente nei confronti dei progetti sociali e che cerca soluzioni individuali, sovente fuori dal paese. Ciò nonostante, credo che Cuba non si sia mossa quanto avrebbe dovuto, soprattutto per quanto riguarda la sua struttura economica, e questo mette a repentaglio (secondo me) la stabilità stessa e il futuro del paese.

La letteratura ha un ruolo sociale e lo deve adempiere in quanto letteratura, allo stesso modo che il giornalismo deve adempiere la sua funzione come giornalismo. Può capitare che queste due funzioni si confondano e la cosa funzioni, ma quando la letteratura cerca di appropriarsi del ruolo proprio del giornalismo rischia di rimanere troppo ancorata all’immediato, all’effimero e di perdere così una sua qualità vitale. Direi che la cosa importante in tutto ciò è che una riflessione sulla realtà, sia essa di tipo letterario o giornalistico, quando aspira a divenire una proiezione sociale, corre dei rischi, che l’autore deve assumersi. La verità è sempre scomoda, sempre dura, sempre pericolosa: il problema consiste nel capire se la verità dello scrittore o del giornalista si può sostenere. Se si è convinti di sì, di quello che si sostiene, e si crede inoltre che si debba dire o mostrare quella verità, allora bisogna impegnarsi a farlo, nonché assumersi i rischi. Per il resto, la letteratura non può sostituirsi al giornalismo, perché hanno due ruoli diversi benché concomitanti. La narrativa cubana degli ultimi vent’anni ha anche cercato di fare cronaca, perché il giornalismo, troppo ancorato a certi compromessi, non l’ha voluto fare (a Cuba quasi tutto è “ufficiale”, tranne, per esempio, i blog che esistono oggi grazie a Internet). E il risultato è stato che una parte della narrativa è rimasta indietro, è rimasta indietro insieme a quella realtà che cerca di riflettere, perché l’arte deve occuparsi più del permanente che del circostanziale; quest’ultimo, invece, è la fonte primaria del giornalismo.

Per quanto riguarda il rapporto culturale tra Cuba e gli Stati Uniti, Hemingway rappresenta un capitolo molto speciale, perché è famoso, è un mito tanto a Cuba quanto nel suo paese. La sua opera è stata molto seguita a Cuba, lui ha avuto una forte influenza su diversi scrittori cubani e questo è in qualche modo una dimostrazione della vicinanza culturale tra due paesi vicini che condividono rapporti musicali, sportivi (il baseball è il miglior esempio), storici, e addirittura un antagonismo politico di cinquant’anni, che in diversi modi, si è irradiato nel mondo. Mi auguro che ciò che ci avvicina, ciò che ci identifica come cultura e identità possa prima o poi avere il sopravvento sulla politica, sulle ostilità, sull’ansia di dominio, e possa mostrarsi solo sul piano di una comunità culturale e storica molto forte che esiste tra entrambi i paesi.

La nostalgia è uno dei sentimenti più puri e amabili: perché riesce a metterci in rapporto con il passato in modo sottile, senza rimorsi, eppure a volte può anche essere aggressiva e opprimente. Il “desencanto” ha più a che fare con il rapporto dell’uomo con l’ambiente, con le persone e le realtà che lo circondano, e nella mia letteratura c’è parecchio “desencanto” (come nella stragrande maggioranza della letteratura cubana degli ultimi due decenni): perché abbiamo vissuto un “desencanto”. E l’esilio è come una maledizione che ci perseguita da quando siamo cubani, ovvero da due secoli. L’esilio ha segnato la vita di José María Heredia e di tutta quella generazione letteraria: padre Varela (che attende la sua beatificazione dal Vaticano), Domingo del Monte, Cirilo Villaverde (il primo romanziere cubano), José Antonio Saco, anche José Martí, il più grande dei cubani, ha sofferto l’esilio. E ci sono due milioni di cubani che vivono in esilio, anche una parte della mia famiglia è in esilio. E l’esilio è sempre una lacerazione, segna le persone e i paesi, come avrei potuto scrivere di Cuba e dei cubani se non mi fossi confrontato con la nostalgia, il “desencanto” e l’esilio?