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Intervista con George A. Romero |
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12/12/2007 |
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Una delle caratteristiche più salienti di Diary of the Dead è il fatto di essere un progetto low budget, come i suoi primi film sugli Zombi. Cosa l’ha spinta a fare questa scelta, sia in termini di produzione che di struttura?
È stata un’esperienza liberatoria. Quando abbiamo girato il mio ultimo film sugli Zombi, non è che navigassimo nell’oro, ma si è certamente trattato di una produzione più impegnativa. Non è stato facile, il progetto era molto ambizioso rispetto al budget e fino alla fine è stata una continua battaglia. Nel cast figuravano alcune star ed era indispensabile rispettare le varie scadenze. La Universal si è comportata molto bene con me, ma quando si deve rispondere a qualcuno non si può improvvisare e qualsiasi cosa volessi fare dovevo sempre farmi autorizzare in forma scritta.
Inizialmente, non avevo intenzione di fare uscire il film nelle sale. In Florida c’è una scuola di produzione cinematografica e avrei voluto girarlo con gli studenti, senza far sapere niente a nessuno, con denaro privato – 500mila dollari – tanto per fare una pausa, per rilassarmi un po’. Ma poi Artfire si è interessata al progetto, hanno letto la sceneggiatura e mi hanno detto “Puoi avere tutta la libertà che vuoi, ma mettiamoci un po’ più di soldi e facciamolo uscire in sala”.
Ho comunque potuto fare il film con degli amici ed è stata veramente la prima volta che, dopo La notte dei morti viventi, mi è stato possibile rivivere un’esperienza simile.
Quant’è cambiata la sua visione del mondo e, in particolare degli Stati Uniti, dalla Notte dei morti viventi?
Ora controllo meglio le cose. Quando guardo La Notte dei morti viventi – e lo faccio spesso – ne colgo tutti i difetti. Solo negli ultimi tre film che ho girato ho avuto l’impressione di controllare le realmente le cose, in termini di dove dirigere lo sguardo, che tipo di inquadrature fare, ecc.
Non so se possiedo uno stile mio, ma so che sono cresciuto rubando a destra e a manca: Welles, Hitchcock, Michael Powell… Quando ho cominciato era tutto molto costoso, non si poteva “andare per tentativi” con una videocamera. Sono ancora alla ricerca di uno stile ma credo ormai di sapere dove piazzare la macchina da presa!
Nel frattempo, tre anni fa, ho lasciato gli Stati Uniti e ora vivo in Canada. Qui ho girato Bruiser - la vendetta non ha volto e La terra dei morti viventi. Sono diventato amico di persone che hanno la mia stessa sensibilità politica e ora sto cercando di ottenere la residenza in questo Paese. Sono venuto qui per lavoro ma la vera motivazione è stata politica e La terra dei morti viventi è un film più dichiaratamente politico.
Cosa rappresentano gli Zombi per lei? Sono un riflesso della società, della così detta normalità, o una pura estensione del suo amore per l’horror?
Nella mia testa non sono una metafora. O piuttosto, potrebbero essere un uragano, sono una catastrofe naturale; rappresentano la rivoluzione, ma la rivoluzione potrebbe essere un tornado. Gli Zombi sono una scelta ironica. Ho detto che gli Zombi siamo noi e che troppi di noi vanno in giro come morti viventi, ma in realtà questo è uno scherzo per pochi eletti.
Fin dall’inizio ho voluto farne un fenomeno straordinario e mostrare che la gente non cambia per adattarsi. Ma la maggior parte delle mie storie sono storie umane o, se sono storie politiche, sono istantanee dell’epoca in cui sono stati girati i film.
In che senso La terra dei morti viventi è un film politico?
Per via dei riferimenti alle Torri Gemelle, alla vita pre e post 11 settembre, al fatto che ora tutti cercano di rallegrarsi con giochi e divertimenti. In Zombi il consumismo è al centro del film, mentre ne Il giorno degli zombi ho voluto sottolineare come ormai non si abbia più fiducia in nessuno.
Voglio, però, separare la vera politica dalla critica sociale e penso che La terra dei morti viventi sia l’unico dei miei film che fa riferimento alla politica dell’attuale governo.
Il nuovo film tratta dell’esplosione mediatica: siamo tutti collegati al web, siamo tutti reporter, abbiamo tutti una videocamera. Ma questa situazione può essere più pericolosa che all’epoca in cui l’informazione era controllata, credo...
Quindi l’idea di fare un film nel film con Diary of the Dead nasca dalla voglia di parlare dell’attuale saturazione mediatica?
Sì, è un fenomeno che esercita una grande attrazione. Mi ricordo che quando negli Stati Uniti esistevano solo tre reti, già allora la gente preferiva scegliere ciò che desiderava ascoltare. Poi, con l’avvento del cavo, i diversi orientamenti politici sono diventati più evidenti: la CNN era “liberal”, la FOX di destra. Ora invece, è tutto molto omologato e potrebbe anche venir fuori un fanatico che predicando la fine del mondo, si ritroverebbe con un milione di ascoltatori!
Quando dicevamo che l’informazione era controllata dai network, dai media più potenti, il pubblico non era consapevole di quanto stava accadendo e accorreva in massa a sentire ciò che aveva voglia di sentire. Oggi che il meccanismo sfugge a qualsiasi controllo, la gente ne è sempre più attratta: tutti vogliono giocare a fare il reporter, avere un blog personale è diventato un obbligo. Fra tutti ci sarà pure qualche critico geniale, ma ci sono anche tanti squilibrati.
Una struttura in cui i protagonisti – mentre girano – “controllano” l’immagine, costituisce forse un qualche tipo di filtro?
Ho pensato che così il film sarebbe stato più realistico. Non volevo fare delle inquadrature estetiche degli aspetti più splatter e ho ritenuto che un maggior realismo avrebbe ricordato agli spettatori i loro filmini casalinghi. Penso che piacerà soprattutto agli studenti di comunicazione. Mi è sembrato che fosse la situazione giusta e mi ha dato la possibilità di lavorare in soggettiva come spesso accade oggi. Attualmente, anche i dibattiti politici si svolgono su Youtube, senza l’intervento del moderatore. Siamo talmente attratti dall’idea di far parte di un’unica comunità mondiale che finiamo per non chiederci più di che tipo di comunità si tratta e da quali regole è governata.
Poi le cose hanno subito una certa evoluzione verso la fine della lavorazione. Volevo un film grezzo, senza lavoro di montaggio e mi sono detto che poiché si trattava di un film girato da studenti di cinema, certe cose loro non le avrebbero mai fatte. Poi ho deciso che Debra doveva finire il film, che avrebbe dovuto fare un vero e proprio lavoro da artigiano, includendo così anche del materiale scaricato da Internet. Questa parte della struttura, questo tipo di narrativa sono nate nello studio di montaggio. Non siamo intervenuti sulla lunghezza del materiale girato, anche se in seguito abbiamo girato un’altra scena con il contadino perché mi sono reso conto che non avevamo uno Zombi! Un contadino Amish che improvvisamente acquista un’enorme popolarità e finisce per firmare tutti gli autografi alle convention!
Gli attori hanno fatto un grosso lavoro di improvvisazione oppure avevano uno storyboard o una sceneggiatura da seguire?
C’è stata poca improvvisazione: un po’ nei dialoghi anche se gli attori dovevano comunque trasmettere il messaggio. Essenzialmente, hanno colorito il dialogo, aggiungendo una serie di “cazzo!” che io non ho mai scritto! Il film sembra scucito, girato con una macchina da presa che entra ed esce dagli spazi, dalla casa: tutte cose che però sono state programmate fino nel minimo dettaglio. La macchina da presa spesso spazia a 360 gradi e non sapevamo dove nascondere le luci. Gli attori erano tutti attori di teatro e credo che se avessi detto loro che avremmo girato tutto il film senza stacchi avrebbero risposto di sì, contrariamente agli attori di cinema che chiedono “Cosa giriamo oggi?”
Il fatto che la macchina dovesse essere fissa impediva qualsiasi possibilità di improvvisazione fisica. Comunque, a condizione che gli attori abbiano colto l’essenza del messaggio, non è mia abitudine pretendere che rispettino alla lettera quanto ho scritto
Lei ha detto che il suo nuovo film non è il quinto episodio della saga degli Zombi, bensì un nuovo inizio. Cosa intende dire?
Non è un quinto episodio in quanto non si svolge tre anni dopo. La prima volta che ho evocato una struttura temporale è stato ne La terra dei morti viventi in cui si ha l’impressione che le cose vadano avanti da tre anni, visto anche lo stato della città. I primi quattro film si riferiscono vagamente a quella struttura temporale. Il mondo si disintegra ogni volta un po’ di più e nel quarto film i protagonisti si costruiscono una sorta di porto sicuro in cui rifugiarsi. In Diary, questo fatto rappresentava un ostacolo in quanto dovevo tornare alla prima notte perché se no gli studenti non sarebbero stati a scuola e il professore sarebbe stato morto!
Quindi si è trattato di un nuovo modo di riproporre il vecchio inizio?
Esattamente. Ho anche usato delle registrazioni di notiziari tratte da La notte dei morti viventi, in modo molto discreto, per fare in modo che le cose accadessero simultaneamente.
È vero che sta già lavorando a un sequel del film?
Sì. Non so se è una buona idea o no, ma ho tante più cose da dire sui media. E per la prima volta si tratterà di un seguito vero e proprio, con i personaggi sopravvissuti che escono dalla casa. Credo che decideranno che il luogo più sicuro per loro è un’isola e io potrò fare qualcosa sulla falsa riga di Lord Jim! Spero di poter lavorare la prossima estate perché gli ultimi due film sono stati girati quando faceva molto, molto freddo. È difficile chiedere a 100 Zombi di buttarsi in un lago gelato… ma io mi faccio carico del brandy!
Si mormora che lei stia anche lavorando al remake di uno dei suoi primi film meno noti, The Season of the Witch.
Witch è l’unico dei miei film di cui vorrei girare il remake. L’idea mi piaceva molto, ma il finanziamento era insufficiente, all’ultimo momento abbiamo perso molto del denaro che ci era stato promesso e sono rimasto insoddisfatto del risultato. Il film racconta la storia di una donna che viene esautorata dagli amici e dal marito e che è incapace di agire autonomamente finché non scopre – o comincia a credere – che l’esercizio della stregoneria l’ha liberata. Naturalmente sono tutte balle, per lei è solo un’ancora di salvezza. Oggi ne farei una donna con molto più potere nella vita, ma rimarrebbe pur sempre un individuo la cui personalità è stata annullata. Tuttavia oggi, per un uomo, è molto più difficile scrivere sulle donne perché sono tutti molto più sensibilizzati al problema. All’epoca bastava dire “Sono un sostenitore del movimento di liberazione della donna”, oggi invece bisogna essere più realistici. Ho scritto una settantina di pagine finora ma non costituiscono un testo vero e proprio.
Ho anche scritto una commedia demenziale sugli Zombi che mi piacerebbe girare. Una vera storia alla Willy il Coyote e Beep Beep, interpretata però da uno Zombi e da un essere umano. Per la parte dello Zombi, ho in mente un attore di Montreal che è identico a Willy il Coyote. L’ho finita ancor prima di iniziare Diary of the Dead perché dopo La terra dei morti viventi avevo voglia di fare qualcosa che mi divertisse e così ho cominciato a scriverla mentre davo gli ultimi ritocchi al film. Non ho potuto resistere all’idea di girare prima Diary, però c’è questo lato un po’ sciocco in me che ha assolutamente bisogno di fare questa commedia. Apparentemente siamo quasi riusciti a trovare i finanziamenti quindi, forse, potrebbe essere il mio prossimo film. Ma se tutti, compresi i Weinstein, vogliono un sequel [di Diary] sarà difficile arginare un entusiasmo così violento.
Lei e Dario Argento [che quest’anno è presidente della Giuria al Courmayeur Noir in Festival] avete avuto dei percorsi professionali simili. Oltre ad essere nati nello stesso anno, avete iniziato la carriera di regista quasi contemporaneamente, lei nel 1968 e Dario Argento nel 1970. Inoltre, avete entrambi presentato quest’anno il vostro nuovo film al Festival di Toronto. Cosa rappresentano per lei Argento e la sua opera?
A Dario riconosco il merito di avere rilanciato la mia carriera con Zombi. Dopo La notte dei morti viventi mi ero opposto in modo irremovibile all’idea di girare un altro film di Zombi. C’erano voluti anni perché la gente cominciasse a scrivere in termini politici del mio film, definendolo un film sostanzialmente americano, cosa del resto a cui non avevo mai pensato e che mi aveva sottoposto a un ulteriore stress.
Poi mi è capitato di incontrare le persone che avevano costruito il centro commerciale che figura in Zombi, il primo centro commerciale costruito nei pressi della mia abitazione. E quando mi hanno raccontato che conteneva tutto ciò che può servire per sopravvivere lì dentro per l’eternità, meglio che in un rifugio antiaereo, mi si è accesa una lampadina in testa. Il film non sarebbe stato ambientato in una fattoria ma in un centro commerciale e avrei potuto parlare di consumismo! Tre settimane dopo aver avuto, per un caso fortunato, questa idea, Dario mi chiama per la prima volta, anche se non ci eravamo mai conosciuti.
Mi ha detto, “Salve, sono Dario Argento”, “cazzo!” mi sono detto io. Mi ha chiesto se stavo lavorando a qualcosa e ha aggiunto che dovevo assolutamente fare un altro film di Zombi. Quando gli ho raccontato l’idea che mi era venuta, mi ha invitato a Roma, mi ha rinchiuso in un appartamento e fra una delle sue meravigliose cene e l’altra ho scritto il film.
Penso che sia uno dei giganti del cinema e che alcune delle cose che ha fatto siano dei capolavori: Suspiria, ma anche i film precedenti sono fantastici. Abbiamo perfino girato un film insieme ma purtroppo non ci siamo mai trovati sullo stesso set. Decisamente è uno dei grandi maestri.
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