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Chi ha ucciso la giustizia? |
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07/12/2007 |
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L’ex procuratore di Milano Gherardo Colombo e il neo Raymond Chandler Award Scott Turow, moderati da Gaetano Savatteri, hanno discusso di giustizia a tutto campo al Centro Congressi di Courmayeur. Uomini di legge e lettere diversi tra loro, provenienti da mondi per molti aspetti lontani, eppure accomunati da alcuni dati biografici evidenti, come ha fatto notare Savatteri durante la presentazione dell’incontro “Chi ha ucciso la giustizia?”
Sia Colombo che Turow sono stati procuratori, anche se il primo si è dimesso da poco dalla magistratura, mentre il secondo ora è un avvocato difensore. L’ex pubblico ministero oggi tra le varie attività, si occupa di libri, ricoprendo la carica di vice-presidente della Garzanti; l’autore di Presunto innocente, invece, i libri li scrive ed è certamente più famoso nel mondo per la sua carriera letteraria che per quella che lo ha visto, comunque, tra i grandi accusatori della corruzione nello Stato dell’Illinois e in prima linea contro la pena di morte.
Il tema in discussione era indubbiamente complesso ma Turow e Colombo non si sono sottratti alle domande di Savatteri, né a quelle di un pubblico numeroso (che ha costretto alla traduzione consecutiva perché le cuffie per la simultanea erano finite), composto da tanti studenti delle scuole superiori. L’intento degli organizzatori era quello di interrogare i due protagonisti sulla questione della legalità, sulle emergenze dei nostri tempi, e naturalmente anche sulla pena di morte, insomma sul sistema di regole e valori che ordinano o dovrebbero ordinare la convivenza civile.
Turow ha esordito, più nel ruolo di scrittore che di avvocato, mettendo subito in rilievo la necessità di identificarsi con tutti i personaggi, e dunque anche e soprattutto con gli imputati come accade sin dalle prime battute di Presunto innocente, dove “il protagonista immagina il suo rapporto con l’accusato”. Un tema ricorrente nella poetica di Turow che ha subito acceso la discussione pensando alla realtà italiana, non più quella della fiction letteraria, ma quella della quotidianità nella quale “la relazione tra cittadini e imputati – ha spiegato Colombo – varia a seconda del nome dell’accusato e dell’interesse dei media. Una forma di penetrazione in grado di modificare i processi in qualcosa che esula dalla natura rigorosa del processo, se si fa riferimento ai casi di corruzione che coinvolgono i politici e gli imprenditori che possono mettere in gioco il loro potere e scatenare una rivoluzione; o al contrario di chi colpevole o innocente che sia, si trova alle prese con ben altro trattamento, si veda il delitto di Perugia, tanto per rimanere a un recente episodio di cronaca nera”.
Il timore di colpire un potente, un argomento che riguarda tutti, non solo noi. “Quando ero un giovane procuratore – ha replicato Turow – mi sono trovato ad accusare personaggi importanti e allora pensavo alla frase di Machiavelli che diceva «se cerchi di uccidere un re, assicurati di ucciderlo veramente». Indubbiamente è una situazione che mette timore. Però negli Stati Uniti come in Italia si dovrebbe pensare alla giustizia come a un esercizio da compiere senza paura e senza speranza”.
Il nodo centrale è quello strutturale che riguarda un intero sistema, non solo quello della giustizia che, secondo Colombo, deve rimanere un mezzo per regolare la convivenza civile: “La giustizia non può e non deve rimanere relegata in un’aula di tribunale. Quello che conta è l’assunzione di responsabilità di ogni singolo individuo. Solo così si può superare la crisi di valori che ha colpito il nostro Paese. La giustizia dipende dal senso di giustizia. Se la corruzione viene assunta come una pratica diffusa e accettata, un sistema di regole non scritte che fanno legge, la giustizia può fare ben poco”, ha chiosato Colombo che però, dopo la domanda di un giovane studente che chiedeva lumi sul futuro, ha ribadito di essere tutt’altro che pessimista, “a patto che si arrivi a un sistema dove ogni individuo possa essere trattato con pari dignità”.
Non sono mancate le sollecitazioni sulla pena di morte. In questo caso Turow ha spiegato che “gli europei quando giudicano gli Stati Uniti, e si pongono la domanda su come sia possibile che una civiltà così evoluta accetti una pena così barbara, dovrebbero valutare aspetti che separano profondente il Vecchio dal Nuovo Continente. Negli Stati Uniti le persone acquistano armi con facilità e, di conseguenza, commettono omicidi cinque volte di più che altrove. A regnare è la paura e, in tal senso, non deve stupire che sulla pena di morte ci sia un vasto consenso”. Argomentazione razionale da parte di chi si è schierato contro l’esecuzione capitale non ideologicamente o per convincimenti morali, ma attraverso riflessioni strettamente logiche e sociologiche – il trattamento profondamente diseguale tra imputato e imputato, a seconda del colore della pelle, del ceto sociale, dell’avvocato che un accusato si può permettere.
“I cittadini statunitensi a differenza di quelli europei – ha proseguito Turow – non sono molto interessati a quello che accade fuori dai confini nazionali. E non sembrano particolarmente preoccupati dal fatto che la democrazia possa corrompersi, nonostante tutto quello che è successo in questi anni con un Presidente colpito da un impeachment, un altro eletto a tavolino in tribunale con la riconta dei voti. Forse i nostri convincimenti si basano su una storia diversa. Non dimenticate che il nostro suolo non è stato invaso e non ha subito distruzioni come è accaduto in Europa con le due Guerre mondiali”.
Europa-Stati Uniti, due mondi vicini o forse lontani. Comunque sia, la lezione di Colombo e Turow è chiara: se vogliamo riflettere sulla giustizia dobbiamo pensare al mondo e a tutto ciò che accade dentro e fuori di noi. |
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