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  La Giustizia degli altri – Incontro con Gherardo Colombo  
 
 07/12/2007 
di Gaetano Savatteri

In occasione della sua presenza a Courmayeur per ritirare il Premio Chandler, abbiamo chiesto a Scott Turow di incontrare Gherardo Colombo per confrontarsi con lui sui temi che sono stati e sono al centro della vita e del lavoro di entrambi. Alla vigilia dell’incontro tra questi due protagonisti della battaglia contemporanea per la legalità, combattuta sui diversi fronti della lotta italiana alla corruzione politica e della lotta americana contro la pena di morte, lo scrittore e giornalista Gaetano Savatteri ha intervistato per il nostro catalogo l’ex magistrato italiano.


Un addio consumato in fretta: una lettera di dimissioni e via, senza scene plateali né melodrammi. Gherardo Colombo nel febbraio 2007 si dimette dalla magistratura, dopo trent’anni di lavoro in uno dei palazzi di giustizia più famosi d’Italia, quello di Milano. La sua firma resta sulle inchieste più squassanti della vita politica italiana: la loggia massonica P2, il delitto di Giorgio Ambrosoli, Mani Pulite, i processi Imi-Sir-Lodo Mondadori-Sme. Colombo se ne è andato a quindici anni esatti dall’inizio dell’inchiesta Mani Pulite che rivoluzionò il sistema dei partiti, svelando corruttori e corrotti, tangenti e mazzette, affari loschi tra imprenditori e politici. Se è andato con un amarezza e con un sogno. L’amarezza che “in Italia quella tra cittadino e legalità è una relazione sofferta: la cultura di questo Paese di corporazioni è basata soprattutto su furbizia e privilegio. Tra prescrizioni, leggi modificate o abrogate, si è arrivati a una riabilitazione complessiva dei corrotti”. E un sogno: “Voglio incontrare i giovani e spiegare loro il senso della giustizia. Mi sono convinto che, affinché la giurisdizione funzioni, è necessario esista una condivisa cultura generale di rispetto delle regole”. Il 17 marzo 2007, Colombo affidava queste parole al «Corriere della Sera». E adesso, quasi un anno dopo?
“Continuo a incontrare i giovani. In Calabria, a Napoli, a Salerno. Nelle scuole. E scopro che c’è un’altra Italia, ma che ha scarsa rappresentanza. Scopro che esistono scuole dove si fa un lavoro eccellente sul rispetto delle regole. Anzi, sul tema del coinvolgimento per trovare un sistema di vita che ci faccia star meglio tutti, anche attraverso le regole”.
 
Si sarà reso conto che esistono ancora due Italie…
In alcune parti del nostro Paese il territorio è controllato dalle organizzazioni criminali. Ci sono quartieri, città, intere regioni sottratte al controllo delle istituzioni. E in queste zone il delitto paga, perché è difficile individuare i colpevoli.
 
Sono le stesse zone in cui un morto in una sparatoria non fa più notizia…
È vero. Ma credo non sia soltanto per una diversa sensibilità della stampa e dei mezzi di informazione su quel che succede in queste aree. È qualcosa di ulteriore e di diverso. Tutto viene dato per scontato, quasi si trattasse di una specie di normalità. A me piacerebbe riflettere su come questa informazione ridotta finisca per fare il gioco della criminalità. Forse c’è qualcosa di più che un’assuefazione.
 
Ha lasciato la toga di fronte allo spettacolo della riabilitazione dei corrotti. Eppure negli ultimi tempi sembra che qualcosa si stia smuovendo. L’abituale rassegnazione sembra fare spazio all’indignazione. Non è il segno che si sta toccando il fondo?
Temo che l’indignazione in Italia regga pochissimo. Ho passato i sessant’anni e ho visto molte volte queste ondate di indignazione, anche per fatti estremamente gravi. Penso all’indignazione e alla commozione che seguirono le stragi nelle quali furono uccisi i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Anche allora, passata la reazione emotiva, si spense l’indignazione.
 
Forse l’indignazione è destinata sempre a spegnersi…
Mi chiedo tante volte se non esista un interesse personale e privato a non doversi preoccupare, a non reagire.
 
Cioè?
Faccio un esempio concreto. Io credo che Mani Pulite sia finita nel momento in cui sono entrati nel raggio dell’inchiesta personaggi nei quali ci si poteva identificare. Mi spiego meglio: fin quando venivano coinvolti i potenti, gli intoccabili, allora ciascuno stava a guardare e magari poteva provare anche una certa soddisfazione nel vedere la caduta di queste persone. Poi, quando l’inchiesta si è estesa al commerciante che pagava la mazzetta al vigile urbano, all’agente della guardia di finanza corrotto, all’impiegato pubblico che favoriva qualcuno dietro compenso, allora ciascuno ha cominciato a identificarsi con questi che erano poi colleghi d’ufficio, amici, familiari. E allora, in questa fase, molti hanno preso le distanze dall’inchiesta perché finiva per toccare persone vicine o comunque simili a noi.
 
Lei ha lasciato la toga perché ritiene che l’atteggiamento verso le regole debba cambiare anche fuori dai palazzi di giustizia. Le leggo alcune frasi scritte da un suo ex collega, Scott Turow, vice procuratore a Chicago, pubblico ministero in alcuni processi contro la corruzione: “La legge non è in grado di risalire alla verità né di amministrare la giustizia con l’affidabilità che è costretta a ostentare. Le sue regole non arrivano mai a penetrare fino in fondo le tenebre dell’ambiguità morale, e non sanno comprendere né dare risposte alla complessità delle motivazioni e intenzioni umane. E la pena da sola non trasforma il mondo che ci circonda in quello in cui vorremmo vivere. Di fronte alla crudeltà, che infliggiamo gli uni agli altri il senso di uno scopo e di una comunanza con gli altri deve venire da un ambito che sta al di fuori della legge”.
Condivido e sottoscrivo. Vede, secondo me la parola legalità è una parola neutra. Anche la parola legge è neutra. Il contenuto delle leggi si valuta facendo ricorso al concetto di giustizia, per quanto pure il termine giustizia non sia univoco. Faccio un esempio: quando la schiavitù era legale era illegale cercare di liberare gli schiavi altrui, era illegale riconoscere l’uguaglianza. Si trattava di una legalità ben diversa rispetto a quella cui ci riferiamo noi. Temo che adesso il mondo vada verso il riconoscimento di regole analoghe a quelle passate, regole che ammettono la discriminazione, la sopraffazione, la disuguaglianza.
 
A proposito dei tempi e dei luoghi della legalità. Negli Stati Uniti la pena di morte è regolamentata per legge. Scott Turow, che ha scritto un saggio per limitare l’applicazione della pena capitale, fu chiamato a far parte di una commissione governativa che doveva esprimersi sulla pena di morte. Turow vi entrò a far parte senza avere un’idea precisa a favore o contro, riteneva addirittura che nemmeno il principio della sacralità della vita fosse dirimente, perché fondato su un postulato religioso. Al termine dei lavori, Turow si pronunciò però contro la pena di morte. Al di là di ogni convinzione religiosa o morale…
La penso come Turow. Non credo che la negazione della legittimità della pena di morte passi per un credo religioso, passa piuttosto attraverso il valore e la dignità della persona umana. E faccio ricorso non solo alla nostra Costituzione, ma anche alla Dichiarazione universale dei diritti umani, frutto delle considerazioni elaborate dopo le carneficine e la Shoa ai tempi della seconda guerra mondiale. La Dichiarazione stabilì il principio della dignità della persona umana, che fino a quel momento era stata considerata come strumento. E questa sarebbe già una ragione sufficiente per negare legittimità alla pena di morte. C’è una seconda ragione, molto concreta: i numeri e l’esperienza hanno ormai evidenziato che la pena di morte non serve come metodo di prevenzione generale e di deterrenza contro il delitto. E, infine, concepire la pena di morte come vendetta contro il colpevole significa abdicare ai principi illuministi che fanno parte della nostra storia.
 
D’altra parte, l’Italia è un paese nel quale nessuno o quasi nessuno sconta una pena in carcere…
È vero, ma non del tutto. Chi viene colto in flagranza di reato, spesso cittadini stranieri, sconta la sua pena e lo fa anche con minori garanzie rispetto agli altri. C’è chi rimane in carcere per l’intero periodo della custodia cautelare e sconta interamente la pena, prima ancora che si siano compiuti i tre gradi di giudizio e che si conosca la sentenza definitiva. Nello stesso tempo, per altri reati, ad esempio quelli per i quali non è possibile la flagranza, succede che non si sconti nessuna pena: è inutile dire che sono, quasi sempre, i cosiddetti colletti bianchi. Ma, soprattutto, mi interessa fare una riflessione sul sistema sanzionatorio. Il carcere produce recidivi: due persone su tre che escono di cella tornano a delinquere. Allora, dobbiamo capire se questo sistema carcerario è utile per prevenire la commissione di altri reati e se il dettato della Costituzione che intende la pena come rieducazione del condannato sia realizzato e realizzabile.
 
Lei è un lettore di noir, di legal thriller?
Per molti anni ho letto atti giudiziari e ho scritto sentenze. Ma certo mi capita di leggere libri gialli. Recentemente ho letto l’ultimo libro di Piero Colaprico…
 
In passato si sosteneva che in Italia non si potevano scrivere libri gialli perché il colpevole, alla fine, non sarebbe mai stato arrestato. In realtà se ne scrivono molti, proprio perché spesso i colpevoli restano impuniti, nella realtà come nei romanzi…
Ma questo non accade solo nei noir italiani. La letteratura è piena di persone che rimanevano impunite, e il mondo è stato spesso così. La pena e la colpevolezza dell’individuo venivano valutate dalla natura del reato e soprattutto dalla posizione sociale di chi lo commetteva. In Italia, nelle zone dove il crimine organizzato è forte e radicato, è probabile che il colpevole non venga nemmeno individuato. Per quanto il commissario Montalbano mi pare che i colpevoli alla fine li acciuffi.
 
Lei si dedica a parlare con i giovani. Ma, al di là di ogni retorica, crede veramente che i giovani potranno cambiare le cose o pure loro sono rassegnati al peggio?
Ci sono ragazzi impegnati a trovare un lavoro, ragazzi che vivono in situazioni ambientali pesanti. Ma credo che sia importante aiutare i ragazzi a non perdere le speranze. Spesso siamo noi adulti che contribuiamo a togliere ogni speranza ai più giovani. Dovremmo essere più attenti, dovremmo dare più spazio alle loro energia, alla loro voglia di fare e perfino alle loro utopie. Le utopie restano tali se sono uccise da chi non ha più fiducia né speranza. Se i ragazzi troveranno risposte negli adulti allora potranno avere fiducia nel futuro e potremo averla anche noi.