di Ilaria Marocchio
Uno dei momenti più importanti del Noir in Festival è quello dedicato a Giorgio Scerbanenco. Nel suo nome si celebra, da più di vent’anni, un premio letterario che va al miglior romanzo noir dell’anno.
All’incontro con
i finalisti del
Premio Scerbanenco era presente la figlia Cecilia, non solo nel ruolo di presidente del prestigioso riconoscimento, ma anche in qualità di autrice del libro
Il fabbricante di storie, edito da La nave di Teseo. Un volume che ripercorre la vita di un padre e di un artista e che è anche una sorta di diario di viaggio dell’autrice stessa.
Il libro descrive lo Scerbanenco privato e getta una luce molto interessante anche sull’artista. Le memorie di quest’ultimo sono state ricavate attraverso un importante lavoro sull’archivio. Materiale cospicuo a cui si sono aggiunti i ricordi del padre trasmessi oralmente alla figlia. Cecilia Scerbanenco, a questo proposito, ha raccontato del suo approccio nella ricostruzione di questa biografia: «È stato quasi impossibile scrivere questo libro soltanto a partire dai miei ricordi, perché quando è morto ero piccola. Ho pensato di lavorare da un punto di vista storico e questo libro ha avuto una gestazione molto lunga. Rimettendo a posto delle carte ho notato che il mio progetto risaliva addirittura a vent’anni fa. È iniziato tutto grazie a Roberto Pirani, che è stato il biografo ufficiale di mio padre, ed è lui che ha cominciato a raccogliere tutti i racconti a partire dagli anni Trenta. Ha riunito una serie di materiali, la cui esistenza era nota, ma che non era stata ancora ordinata e studiata. A partire da questi materiali, si è costituita una specie di trama attraverso la quale poter ricostruire la vita di mio padre».
«Ho sempre spinto - ha proseguito l’autrice - affinché si producesse una biografia più storica e oggettiva possibile. Gli anni che non sono mai stati raccontati realmente sono quelli in cui mio padre era un giornalista. Per me è stata una massa incredibile di informazioni, perché su Grazia negli anni Trenta, mio padre, parlando alle lettrici, raccontava moltissimo di sé sotto lo pseudonimo di Adrian e di Valentino e, prima ancora, di Luciano. In quel contesto, raccontava i suoi pensieri più intimi, quando le sue lettrici gli chiedevano anche di problemi scottanti che riguardavano argomenti come le donne abbandonate dai mariti, le donne che avevano avuto un figlio da un uomo sposato o che avevano subito qualsiasi tipo di violenza. Questo è stato il fulcro del mio lavoro. Ho pure aggiunto cose tratte dai miei ricordi o che mi erano state raccontate da mia madre. Riguardo alla persona che ne è venuta fuori, ho avuto qualche dubbio, in quanto il mito di mio padre gira intorno a genio, sregolatezza, donne e alcol e, invece, quello che ne è risultato dal mio lavoro è il ritratto di un grande professionista e di una persona sensibile e affascinante, di grande spessore sia dal lato culturale che umano».
A seguire si è svolto il tradizionale incontro con
i finalisti del
Premio Scerbanenco, il vincitore
Patrick Fogli,
Giorgia Lepore,
Piergiorgio Pulixi (Premio del pubblico) e
Ilaria Tuti (Menzione speciale), unico assente
Maurizio De Giovanni.
Ha esordito
Piergiorgio Pulixi che con
Lo stupore della notte ha raccontato con occhio particolare un luogo in cui non è cresciuto, Milano. E ha narrato le paure che molte persone possono provare vivendo nella propria città: «Se parliamo di noir, la metropoli è un topos letterario. Sono arrivato a Milano attraverso l’oggetto del romanzo che tratta di una paura quotidiana, quella del terrorismo. Milano è un luogo in cui tutto accade, è una città in vista e quindi rappresenta un simbolo potenzialmente sensibile. Ho descritto la Milano contemporanea - ha proseguito Pulixi -, volevo parlare della bellezza di questa città. Ho cercato di raccontare i luoghi più iconici, ma anche quelli più periferici, mettendo in luce le contraddizioni di questa metropoli che ha tre milioni di abitanti la mattina e uno e mezzo la sera».
Infine, lo scrittore ha spiegato come sia nata l’idea del Lovers Hotel all’interno del romanzo: «Volevo parlare di prigioni clandestine, dove i servizi segreti di alcune nazioni fanno accadere delle cose strane. Alcune persone sono spogliate di tutti i diritti civili e politici e vengono interrogate per mezzo di cosiddetti sistemi avanzati. Cioè, detto in altre parole, sono torturate. Volevo raccontare, perciò, cosa significhi combattere il terrorismo di questi tempi».
Dopo Pulixi, è stata la volta di
Giorgia Lepore, finalista grazie a
Il compimento è la pioggia, che a proposito dell’origine rom del protagonista del romanzo ha detto: «Penso che l’idea sia nata dal fatto che per tanti anni, essendo archeologa, ho lavorato nei cantieri dell’alta velocità a Roma, in zone in cui erano presenti campi rom. Ho avuto una frequentazione quotidiana con i ragazzini rom, giocavano e perdevano tempo con noi perché per andare dalla scuola al campo dovevano attraversare il cantiere».
Anche
Ilaria Tuti, autrice di
Fiori sopra l’inferno, ha parlato del proprio personaggio: «La mia protagonista è un commissario di polizia. Inizialmente, non pensavo di scrivere un romanzo, stavo cercando un soggetto per i miei racconti. Sentivo il bisogno di una figura femminile nuova, diversa. Così, mi è apparsa l’immagine di Teresa, una donna quasi sessantenne. Già con l’età, quindi, ero fuori dai canoni».
«Teresa - ha aggiunto Tuti - ha un carattere respingente e bisogna darle qualche pagina di fiducia per conoscerla e per capirla, ha una grande empatia e interiorità. Con questo personaggio ho mostrato quanto possa essere bella una donna nel quotidiano. In più, ho dato voce a una persona di quell’età che si trova con un’enorme esperienza di vita alle spalle, che ha sofferto, che è uscita da un matrimonio violento che non le ha permesso di diventare madre. Attraverso la sua battaglia è stata capace di trasformare il proprio dolore in un fuoco dentro di sé che, a sua volta, si è tramutato in un’empatia fortissima per il prossimo. Il suo sentimento principale è la compassione, che significa letteralmente sentire il dolore dell’altro e provare il bisogno di alleviarlo. Questa è la chiave attraverso cui lei ci mostra l’assassino. Tutta la storia, quindi, è un lento calarsi negli abissi della mente umana».
I libri di Lepore e Tuti sono romanzi che hanno a che fare con l’attualità e che hanno come protagonisti i bambini. Le due scrittrici hanno spiegato il motivo di questa scelta: «Da adulti perdiamo una saggezza primordiale - ha detto Lepore - che per i bambini corrisponde a un istinto di sopravvivenza, a una capacità di vedere le cose senza filtri. Jerry, il mio personaggio principale, entra in empatia con i bambini perché in fondo ha conservato una parte di questo istinto primordiale. Oggi li vediamo come dei meri consumatori. Non vengono salvaguardati in funzione del loro futuro, soprattutto non si pensa che siano i depositari di quello che verrà. E prima o poi dovremmo porcelo questo problema».
«Nel mio romanzo - ha aggiunto Tuti - c’è questo gruppo di bimbi che rappresenta la speranza in una storia di morte. I bambini sono come degli spiriti antichi, dice Teresa, e sembrano rimanere in contatto con il mondo spirituale dal quale provengono e da cui attingono informazioni e la forza interiore per vivere come in un’avventura. Sono bambini che hanno sofferto e ho inserito questo particolare nel mio romanzo perché penso che la capacità del thriller sia proprio di essere una lente di ingrandimento della società contemporanea».
Per ultimo, è intervenuto quello che, poche ore dopo, sarebbe risultato il vincitore del Premio Scerbanenco,
Patrick Fogli. Parlando di
A chi appartiene la notte ha spiegato: «Il mio personaggio, Irene, ha un’innata ossessione per la verità. Ha bisogno di una formula, di una dimostrazione oggettiva, non si accontenta dei suoi occhi che potrebbero averla ingannata. Il mondo in cui viviamo - ha proseguito Fogli - ha un enorme problema con la realtà dei fatti e questo significa avere a che fare con chi quei fatti dovrebbe raccontarli, ossia con i giornalisti. Oggi - secondo Fogli -, rispetto al passato, avremmo notevoli possibilità di percepire se ci viene detta una fesseria, eppure ce la beviamo comunque».