«Tutti abbiamo un destino, io sono ladro di nascita», dice lo sfacciatamente ribelle Carlos Robledo Punch, protagonista della pellicola
El Ángel di
Luis Ortega, il film candidato all’Oscar per l’Argentina in concorso al Noir in Festival. Presentato a Cannes (un Certain Regard) e prossimamente nelle sale italiane con Movies Inspired, il film racconta la storia di un diciassettenne, riccioli biondi alla Marilyn Monroe e una faccia d’angelo, che sembra avere una naturale inclinazione per il furto. Attitudine che evolve in vera crudeltà criminale quando incontra Ramón, un ragazzo da cui è attratto, e la sua famiglia. Un incontro che dà il via a un crescendo criminale che gli fa conquistare, nell'Argentina negli anni Settanta, l’etichetta di assassino, stupratore e ladro.
Soprannominato l’Angelo della Morte, per il contrasto tra la sua bellezza angelicata e l’efferatezza dei suoi crimini, è stato condannato all’ergastolo nel 1980 per aver commesso ben undici omicidi e molti altri crimini, e ancora sta scontando la pena in carcere. Il film, prodotto tra gli altri da Pedro e Agustín Almodóvar e campione d’incassi in patria, sembra la leggenda di un Vallanzasca sudamericano, e lascia volutamente sospesa la domanda cruciale: come può un individuo tanto seducente e amato celare dietro le sembianze di una faccia d’angelo la selvaggia brutalità di un angelo nero? Ne parliamo con uno degli sceneggiatori, Sergio Olguín.
Come vi siete avvicinati a questo personaggio così complesso, e quanto di realmente biografico c’è nel racconto che ne avete tracciato?
Non eravamo interessati a una biografia tradizionale né al racconto della vita così come l’aveva vissuta, ci interessava piuttosto descrivere il momento in cui si è avvicinato ai crimini, il come sia rimasto affascinato dal mondo della delinquenza attraverso l’amicizia con Ramón e la sua famiglia. Abbiamo preso spunto da alcuni dei delitti che ha commesso, ma ci interessava di più inventare la sua vita interiore, qualcosa di cui non si conosce un granché anche perché non ne ha parlato molto neanche dal carcere. È un film concentrato sulla finzione, sulla sua vita privata, ci siamo presi tutta la libertà che potevamo rispetto alla storia originale.
Quanto è conosciuto oggi in Argentina Carlos Robledo Punch, soprannominato all'epoca l’Angelo della Morte?
Tutti in Argentina conoscono Carlitos, è stato un argomento di grande interesse per la società Argentina negli anni Settanta, molto conosciuto da chi ha vissuto quel periodo ma anche i giovani di oggi sanno chi è. E forse è proprio causa di tutto questo forte interesse che non viene messo in libertà, e ancora continua a scontare la sua pena in carcere, e ad oggi è il prigioniero che ha scontato la pena più lunga nella storia all’Argentina.
Nel film si avverte il fascino del male e l’attrazione del protagonista per il mondo criminale. Come avete evitato che questa fascinazione potesse, in qualche modo, coinvolgere anche al pubblico?
La fascinazione per il mondo del delitto era un elemento centrale che volevamo raccontare. Indubbiamente abbiamo mostrato l’attrazione che Carlos sentiva verso quel mondo cercando di descrivere il suo mondo interiore, ma volevamo fosse chiaro che stavamo parlando di un criminale, non abbiamo perciò addolcito o migliorato il personaggio, non ci interessava edulcorare i crimini commessi. Avremmo, forse, potuto anche concentrarci di più su alcuni dei delitti commessi, che sono anche più efferati e violenti di quelli mostrati, come i due femminicidi, ma ce ne siamo tenuti volutamente lontano perché altrimenti sarebbe stato un altro tipo di film.
Il passaggio da ladro innocuo ad assassino pare avvenire quasi inavvertitamente nel giovane Carlitos.
La sua biografia e proprio così, è un crescendo criminale, parte come un ladruncolo che rubava nelle case oggetti che non vendeva neanche ma il più delle volte regalava, aveva una ragazza del suo quartiere, che era peraltro un quartiere benestante. Tutto cambia quando conosce Ramón e la sua famiglia, lì c’è avviene il vero cambiamento che si manifesta in un periodo molto breve nella sua vita: nel giro di un anno commette tutti i delitti che vediamo nel film. Da adolescente ribelle, che sembra quasi voler fare un atto di rivoluzione rispetto alla società consumista, diventa un assassino, ma senza alcun tipo di riflessione dietro, non c’è in lui né un bisogno personale né alcuna necessità.
Il serial killer che viene mostrato è un personaggio immorale, psicopatico o semplicemente incosciente?
È come se Carlos fosse totalmente inconsapevole, comincia a uccidere ma non c’è differenza per lui tra rubare e ammazzare. Non dà nessun giudizio di valore alle sue azioni, una vale l’altra, in questo senso è amorale piuttosto che immorale. Passa inavvertitamente al commettere l’omicidio, che per lui è come rubare, senza dare valore alle persone che considera alla stregua di oggetti. La camera di Luis Ortega accompagna bene tutto questo, senza dare giudizi morali alle sue azioni.
Quando comincia a uccidere però sembra che l’elemento giocoso venga meno, che sia in qualche modo consapevole di aver superato un limite.
Vero. C’è un’evoluzione del personaggio lungo il corso del film, che secondo me ha che fare con l’amore parallelo che ha con Ramón, un sentimento di cui attraversa tutti gli stadi, dall’attrazione alla delusione alla gelosia. Lui cambia e il film passa dalla commedia nera alla tragedia più classica dove il destino è preannunciato e predestinato. Il ballo di Carlitos che si ripete sulle stesse note all’inizio e sul finale, non è la stessa danza. Alla fine lui si è trasformato e soffre una grande delusione, e in questo c’è un po’ dello straniero di Camus, che io adoro, e un po’ della filosofia esistenzialista, cara a Ortega.
Tra i produttori ci sono anche Pedro e Agustín Almodóvar. Hanno condizionato in qualche modo il film?
Quando i fratelli Almodóvar sono entrati nel progetto era già tutto pronto: sceneggiatura scritta, interpreti scelti, incluso la scelta Cecilia Roth, un’attrice che ha lavorato molto con Almodóvar, cui avevamo pensato fin dal primo momento per il ruolo della madre. Io sono un grande ammiratore del cinema di Almodóvar, e quindi forse parte di quell’umorismo che entra nel momento clou della tragedia e del fascino per il corpo mascolino viene inconsapevolmente da lui.