È Sergio Stivaletti il protagonista della giornata di apertura della 28ma edizione del Noir in Festival. Creatore di mondi visionari e per altri inimmaginabili, Stivaletti, cui va quest’anno il premio intitolato alla memoria del giornalista Luca Svizzeretto, è stato al centro della masterclass sulle tecniche degli effetti speciali che si è tenuta nello spazio di formazione dello IULM di Milano.
Regista e sceneggiatore, ma soprattutto creatore di effetti visivi prediletto da maestri del noir e dell’inconscio come Dario Argento e Gabriele Salvatores, Stivaletti ha dialogato con la nuova generazione di creatori d'effetti, rappresentata da Alessandro Sabbioni, supervisore e responsabile del VFX team dello studio FramebyFrame che ha realizzato, tra gli altri, i mondi di Alien, Maleficent e del Ragazzo invisibile. Per mostrare come la lezione dell’artigianato creativo riesca a confrontarsi con le più moderne tecniche digitali, mantenendo intatto il fascino del possibile e le suggestioni artistiche dell’indefinito.
A proposito del processo creativo Stivaletti sottolinea come la parte più importante sia la fase di progettazione che comincia con il copione in mano: «La riuscita dell’effetto nasce proprio da lì, e non dagli strumenti più o meno realistici, che si sceglie poi di utilizzare. C’è una grande componente artistica in questa decisione, poiché il realizzatore deve progettare l’effetto in base al risultato estetico che vuole ottenere», spiega sottolineando come il cinema stesso, che riproduce il movimento attraverso una serie di fotogrammi fissi, sia in realtà il primo effetto speciale in assoluto. «Sin dall’inizio ho sempre cercato di proporre la cosa più bella da sperimentare adattando le tecniche alla situazione», ha rivelato Stivaletti che ha firmato effetti di film come Phenomena, Demoni, La sindrome di Stendhal. «Dario Argento e Lamberto Bava hanno visto in me la possibilità di un dialogo diverso da quello del creatore di effetti speciali che era considerato fino a qual momento più che altro un truccatore. Il mio approccio è sempre stato lontano dal painter, ad esempio, per fare lo sciame di mosche che entrano in scena più volte fino a oscurare la luna, mi resi conto che occorreva trovare un effetto ottico e fui ispirato dall’effetto visivo della polvere del caffè che buttata nell’acqua somiglia proprio ad una enorme quantità di insetti in movimento».
Stivaletti, che non ha certo paura del nuovo tanto da essere stato uno dei primi in Italia ad utilizzare gli effetti anche digitali sin da La sindrome di Stendhal, non nasconde, però, nell'approccio al mestiere una certa preferenza per l’aspetto artigianale: «Non sono contrario al digitale, che è uno strumento meraviglioso, ma quello che mi piace è miscelare delle cose vere con la tecnica digitale, l’effetto fisico ha una sua estetica e casualità, una mancanza di cui il digitale, in cui tutto è controllato, può soffrire, a volte la cosa migliore è proprio quello che non avremmo voluto, magari uno schizzo di sangue che casualmente colpisce la macchina da presa. Anche se oggi anch’io uso gli effetti digitali, era così bello studiare gli effetti naturali e trovare soluzioni, inventarle, creare con pochi oggetti e piccole cose effetti che poi ripresi su pellicola davano il senso di altri mondi. Ci si divertiva di più, era una sfida più grande ed io preferisco le sfide».
Riguardo al processo creativo digitale Alessandro Sabbioni interviene raccontando come sia totalmente cambiato l’approccio progettuale, anche perché l’idea iniziale può evolvere in studio e il regista può cambiare visione fino, praticamente, alla fine delle lavorazioni. Cosa non si riesce a fare oggi? Praticamente nulla, garantisce Sabbioni. «Certo ci sono effetti più difficili da creare, come rendere il fluido di una scia di sangue che cola, ma possiamo giocare praticamente con qualsiasi cosa, avere simulazioni fisiche della realtà, anche ricreare perfettamente attori sul set. Forse quello che manca oggi è proprio la dimensione astratta e la capacità di andare oltre».
«Oggi il digitale si usa per lo più per riprodurre la realtà, mentre agli inizi era usato più che altro per stupire e fare qualcosa di diverso», conclude Stivaletti, che però non sa scegliere tra realismo e immaginazione: «Per tutta la vita ho fatto una realtà ricreata, anche quando ho fatto cose realistiche ho cercato in qualche modo di rendere la realtà diversa, più bella. Ma lo stesso iperrealismo, in fondo, non è altro che il superamento iperbolico della realtà, qualcosa che porta a qualcos’altro». Ed è proprio questa la magia dei mondi possibili.