di Isabella Weber
Giornalista, scrittore ed esperto di economia del cinema e dei media, Antonio Valenzi presenterà al pubblico del Noir in Festival il suo ultimo romanzo, Golden Standard (edizioni Arpeggio Libero), il 9 dicembre alle ore 10:00 in Sala Bianca. Il suo thriller si muove negli ambienti del mercato finanziario in cui il protagonista, Flavio Altedo, incrocia personaggi ambigui degni della migliore tradizione del noir.
Che rapporto ha con la letteratura di genere e in particolare con il noir?
Dipende, c’è noir e noir. C’è quello che resta ancorato al suo cliché di strumento per narrare "piccole storie ignobili" e quello declinato da Ellroy o - sul versante mediterraneo - dal poliziesco di Camilleri che ormai trascendono il genere per appartenere alla letteratura tout court. Mi piace il secondo, e lo trovo più consono alla contemporaneità, perché viene da lontano e ha di fronte a sé orizzonti ampi e cieli aperti. Invece la ripetizione pedissequa della formula da parte di tutti gli altri mi ricorda un po’ quei signori della medio/alta borghesia che negli anni Settanta mettevano l’orologio sul polsino della camicia per emulare l’avvocato Agnelli. Lui restava "l’Avvocato", gli altri degli ineccepibili ma trascurabili imitatori.
Golden Standard è il suo secondo romanzo. Si dice spesso che il secondo sia il libro più difficile, è stato così? Come ha affrontato il percorso che l’ha portata qui?
Il mio primo thriller, La Provincia del diavolo, nasceva da una reale inchiesta giornalistica rimasta incompiuta dunque per alcuni aspetti Golden Standard, la cui traccia è completamente di fantasia, è stato una seconda opera prima. Per molti anni ho fatto il giornalista e sento molto forte il richiamo di alcune storie che chiedono di essere raccontate, sono un artigiano della parola e con questo spirito mi metto al loro servizio, quindi non ho vissuto l’ansia dell’opera seconda. Mi piace il momento della ricerca, mi piace costruire il rompicapo della struttura narrativa. Quando la fatica nel fare questo supererà il gusto allora smetterò di scrivere. Comunque non è per adesso.
Nel suo ultimo romanzo si è avvalso della consulenza della Guardia di Finanza. Ci può raccontare di più di questa collaborazione?
Naturalmente no! Sarebbe come chiedere a uno chef i segreti della sua cucina! Scherzi a parte, in questi anni di crisi in cui il tema dell’economia è divenuto così centrale, sono stato molto incuriosito dal ruolo di questo Corpo di cui si ha una visione molto stereotipata. Il finanziere nell’immaginario può essere solo due cose: o cattivo o corrotto. In realtà la GdF è molto di più e nell’era della smaterializzazione finanziaria e di mercato globale svolge un lavoro di intelligence e di studio che ha veramente dell’inimmaginabile. Lo dico senza retorica, ma è veramente un fiore all’occhiello del nostro Paese.
La sua carriera di autore di romanzi è intrecciata a quella di critico cinematografico. Quanto la sua passione cinefila influenza il suo modo di scrivere?
Una precisazione: sono stato un cronachista del cinema più che un critico che ritengo una delle cose più difficili da fare. Venendo al punto: la forma cinema è divenuta così pervadente che oggi chiunque si misuri con la parola scritta, esercita la narrazione di un’immagine, anche se non è cinefilo. La parola scritta come reificazione di un concetto credo che ormai sia una prerogativa riservata ad ambiti puramente speculativi. Dai Lumière in poi è sempre stata mediata dall’immagine.