Wulu, lo Scarface maliano
di Michela Greco, Cinecittà News

Nello scenografico Teatro Sociale di Como, adattato a cinema in occasione della 26/a edizione del Noir in Festival, hanno risuonato ieri sera le gesta di Ladji (Ibrahim Koma), un ventenne autista di bus del Mali che, stanco di vedere la sorella prostituirsi, decide di sfruttare il suo talento nei trasporti trasformandosi in narcotrafficante. Gli stilemi tipici del genere noir si sviluppano per una volta sotto il cielo bianco dell'Africa, tra le strade fangose di Senegal, Mali e Guinea, seguendo un ragazzo intelligente ma di poche parole che decide di passare al "lato oscuro" e di assumere nella società un ruolo gratificante dal punto di vista materiale, ma straziante da quello morale. Il Wùlu del titolo, non a caso, non è altro che la parola "cane" in bambarà, animale simbolo del raggiungimento di una buona posizione nel consesso sociale.

Al suo primo lungometraggio dopo due corti con cui ha esplorato temi come la storia recente o l’identità culturale (A History of Independence e Tinyè So), il regista franco-maliano (è nato a Marsiglia) Daouda Coulibaly immerge nella cultura africana una parabola criminale fatta di sparatorie e traffici, di manipolazioni e corruzione, con uno stile molto personale e una mano sorprendentemente sicura.

Tutto tiene nel promettente esordio di questo cineasta: il racconto di genere è innestato alla perfezione nei colori e nelle atmosfere maliane (anche grazie a una notevole colonna sonora "noir etnica"), il protagonista è credibile nei panni del bravo ragazzo che decide freddamente di usare il suo talento per arricchirsi e il thriller - come accade nei film più riusciti - è un'ottima chiave per ritrarre la società e le sue ferite. In questo caso, attraverso l'ascesa criminale di Ladji, Wùlu analizza le origini della crisi del 2012 in Mali.


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