XXV edizione
8/13 Dicembre 2015

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Sinatra, un secolo e...il meglio deve ancora venire
di Giorgio Gosetti

La ricorrenza della nascita, a Hoboken, sobborgo di New York per immigrati e bravi lavoratori, è fissata al 12 dicembre; ma è stato lo stesso Sinatra a fissare un anniversario artistico quasi coincidente. Scelse il 1995 - giusto vent’anni fa - per dare il suo addio alle scene: un concerto per pochi intimi, appena più di mille, a febbraio e con una festa-esibizione a novembre, con "soltanto" quattrocento ospiti ma quasi centocinquanta milioni di spettatori, grazie alla diretta televisiva. Era l’apoteosi di una star che per oltre sessanta anni aveva dominato le scene, tanto che per salutarlo tutti i teatri di Broadway fecero un minuto di silenzio.

Francis Albert Sinatra, americano di prima generazione, figlio di un boxeur di Palagonia (in Sicilia) e di una volitiva genovese (Natalia "Dolly" Garavante), non è un figlio della miseria e del disagio da immigrato. In piena crisi del ‘29 i genitori si trasferiscono in una casa più grande, il padre diventa capitano dei vigili del fuoco, la madre è conosciuta nel quartiere come attivista democratica. Figlio unico, spesso da solo, il ragazzo si conquista l’attenzione dei compagni con esibizioni da imitatore e cantante. Vorrebbe diventare come il suo idolo Bing Crosby. La data "ufficiale" del debutto col microfono in mano è a scuola, nel 1930, ma subito dopo viene espulso e si deve trovare un lavoro. La sera però comincia a esibirsi nei locali e, presa casa a New York, diventa un "saloon singer" con paga da fame e ritmi frenetici. La prima canzone registrata è del 1939, la prima tournée nell’orchestra di Tommy Dorset del 1940, il primo ingaggio cinematografico del 1941, l’esordio con un ruolo significativo del 1944 (Higher and Higher) dopo un paio d’anni passati a cantare per le truppe americane impegnate in guerra.

Personaggio pubblico fin da giovane (sarà amico di ben quattro presidenti, da Roosevelt a Kennedy, da Nixon a Reagan, anche se per nessuno si spenderà come per JFK), mito della prima generazione di ventenni del dopoguerra, star carismatica dallo sguardo magnetico (Old Blue Eyes), riesce difficile dire se Frank Sinatra sia stato più grande come cantante, come showman o come attore. Certamente il soprannome più celebre, The Voice, celebra la sua completezza vocale, il timbro di velluto, l’abilità nel costruire una serie impressionante di evergreen con oltre seicento milioni di dischi venduti e folle oceaniche per i suoi concerti: una volta al Maracanà pare abbia radunato 160mila spettatori in estasi. Ma nella sua carriera a Hollywood si contano, per un totale di cinquantatré film, un Golden Globe, per Pal Joey nel 1957, una applauditissima nomination (L’uomo dal braccio d’oro di Otto Preminger, 1955), un Oscar onorario (per il cortometraggio del 1948, The House I Live In) e una trionfale statuetta nel 1953 per il suo primo, grande successo cinematografico, Da qui all’eternità di Fred Zinnemann.

La sua colonna sonora evoca emozioni per intere generazioni da My Way a Strangers in the Night, da New York, New York a Summer Wind; ma il suo cinema ha gemme indimenticabili: Hotel Mocambo (1944), Un giorno a New York (1949) di Stanley Donen e Gene Kelly che gli fu maestro di ballo; Alta società (1956), Qualcuno verrà (1959), Il diavolo alle quattro (1961), Il colonnello Von Ryan (1965).

Il melodramma sociale e il noir occuparono un ruolo crescente nella sua filmografia, fin dall’intenso ritratto del soldato reduce e sconfitto di Da qui all’eternità, un ruolo che Sinatra volle con tutte le sue forze nel momento più buio della carriera, quando sia la musica che il cinema sembravano avergli voltato le spalle archiviandolo come un "relitto" d’altri tempi. Venne poi il drogato e disperato Frankie Machine di L’uomo dal braccio d’oro, ma i personaggi al di qua e al di là della legge di infittirono col passare degli anni: nel 1960, l’anno di gloria del Rat Pack (il gruppo di amici e divi composto insieme a Dean Martin, Sammy Davis Jr, Peter Lawford e Joe Bishop) venne Ocean’s Eleven, allora distribuito col titolo di Colpo grosso, ma poi diventato un classico grazie al remake con George Clooney. In quell’anno i casinò di Las Vegas in cui è ambientata la storia erano quotidiano terreno di caccia per Sinatra e i suoi amici ed era quello il set ideale di un pericoloso miscuglio tra finzione e vita reale che a Sinatra procurò non pochi guai. I pettegolezzi sulle sue frequentazioni con la mafia risalivano alla fine degli anni Quaranta, al tempo di una tournée a Cuba, terra di conquista delle "famiglie" di Miami e Las Vegas. Vennero poi le indagini dell’FBI (mai approdate a un’incriminazione a dire il vero), le foto con il boss Gambino, l’amicizia con Joe Adonis, gli stessi dirty tricks con i compagni di baldoria del Rat Pack. E in piena ascesa del Presidente e amico JFK ecco il profetico Va’ e uccidi di John Frankenheimer, uno dei più sconvolgenti thriller politici nella storia del cinema americano. Tanto minaccioso nel finale da farsi sconfessare in seguito dal protagonista che vi lesse inquietanti similitudini con l’uccisione di Kennedy. Ma il matrimonio di Sinatra con il thriller proseguirà a lungo, da I cinque volti dell’assassino di John Huston alla spy story Colpo su colpo di Sidney Furie, da L’investigatore a Inchiesta pericolosa, da La signora nel cemento (forse il migliore dei suoi film della maturità, firmato come i precedenti da Gordon Douglas) a Dingus dell’amico George Kennedy e a Delitti inutili di Brian G. Hutton.

Da tempo si parla della biografia di Frank Sinatra che Martin Scorsese vorrebbe creare frugando nella verità e non solo nella leggenda del personaggio e affidandosi al mimetismo di Leonardo Di Caprio per far rivivere l’epopea gloriosa e tumultuosa del figlio di Anthony Martin, che negli Stati Uniti si era rifugiato - si dice - in seguito a un delitto d’onore. Non tutto ciò che Scorsese voleva raccontare del suo compatriota sembrò piacere alla famiglia (peraltro divisa tra il clan della quarta moglie Barbara e i tre figli del primo matrimonio), visto che il progetto resta ancora sulla carta. Ma né il chiaroscuro delle opinioni politiche e delle frequentazioni dubbie, né lo splendore dell’ufficialità, coronata alla fine dalla Medaglia del Congresso, bastano per spiegare il fascino di The Voice: seduttore per tutte le stagioni da Grace Kelly ad Ava Gardner, dalla terza moglie Mia Farrow a Kate Moss (baciata senza che protestasse dall’ormai anziano Sinatra sotto gli occhi attoniti del fidanzato Johnny Depp), essere fragile e prepotente, piccolo-grande Napoleone della musica, Sinatra può essere ben dipinto dalle circostanze del suo funerale. Nel pomeriggio di quel 20 maggio 1998 vennero in oltre quattrocento alla chiesa cattolica di Beverly Hills, da Gregory Peck a Sophia Loren. La bara fu scortata da un picchetto militare in alta uniforme, ma la lapide è piccola e quasi anonima nel cimitero di Cathedral City, lo stesso dei suoi genitori. Sinatra venne sepolto con la cravatta con i colori sociali del Genoa Football Club per sua esplicita richiesta e sulla pietra è inciso il motto da lui voluto: «Il meglio deve ancora venire».

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  • All The Way. Frank Sinatra di Adrian Wootton